Master di vita. Agli scettici su talent culinari la puntata di Masterchef, in onda giovedì scorso su Sky, ha fornito spunti interessanti. Una prova che vedeva affiancati sette concorrenti con ragazzi arrivati nel nostro Paese da migranti che fanno i cuochi da noi e nella cucina hanno trovato un lavoro identitario e un futuro. Venivano da Somalia e Palestina, due donne, Ghana e Nigeria, Yemen, Afghanistan. Hanno raccontato i piatti della loro tradizione, gli ingredienti, tecniche diverse di cottura, marinature, spezie. Accostamenti di gusto, il dolce, sconosciuti nella nostra cultura, come nel caso del piatto afghano che ha vinto. Intressante la declinazione di amaro, acido e dolce nel piatto di Antonia Klugmann con i ravioli e le erbe del suo orto (il fico), di grande complessità e difficoltà ma testimone di un rapporto profondo con la natura che circonda il suo ristorante L’Argine a Vencò, di una ricerca originale e importante (la sua è una cucina che vorrei frequentare e studiare). La parte finale a Vieste, con l’incontro fra il mondo dei concorrenti e la materia prima, la tradizione pugliese, è stata nella terra e nel mare, non velleitario.
Giuste le uscite di Antonino, macellaio messinese, non ha capito che la confusione non è creativa e che la ricetta è rigore assoluto. E di Marianna, impiegata di Monopoli che è caduta sulla mortadella (non sanno un sacco di cose). Simone rimane, con i suoi blackout, il mio preferito, come Davide, incostante ma di cuore. La passione gentile accomuna anche Denise e Kateryna, Alberto è il più velleitario ma ogni tanto c’azzecca.