La Giornata mondiale dell’Alzheimer ha acceso i riflettori su una malattia che in Italia affligge il 5 per cento della popolazione over 65, un milione di persone. Ogni 3 secondi nel mondo una persona sviluppa una demenza, il deterioramento mentale disseminato di amnesie, insicurezze, paure e infermità, è progressivo, manca una cura che sia sinonimo di guarigione.

Da segnalare l’uscita del libro LA BATTAGLIA CONTRO L’ALZHEIMER – sottotitolo: il lungo viaggio alla ricerca della memoria – di JOSEPH JEBELLI, editore Mondadori. L’autore ha studiato neurobiologia all’University College di Londra, si è poi perfezionato nella ricerca sull’Alzheimer all’Università di Washington, a Seattle.

Lo smarrimento è uno dei primi segni della malattia di Alzheimer. Nelle forme più gravi chi soffre di questi disturbi non riesce a riconoscere i propri cari, coniuge, figli e nipoti. Jebelli conosce bene il problema, anche perché prima di fare il ricercatore, da bambino, ha assistito al declino delle facoltà intellettuali del nonno, perso nell’abisso della demenza.

Ma nel libro prevalgono gli atteggiamenti positivi, le informazioni utili e le testimonianze umane, che lo rendono un volume utile a tutti, non solo a chi deve assistere un parente o un paziente che sia: “Questo è un momento emozionante per l’Alzheimer, scrive Jebelli a proposito delle ricerche in corso. Stiamo prendendo di mira le cause sottostanti, non trattando solo i sintomi come avveniva in passato”.

Perché è così diffusa da demenza? Perché viviamo più a lungo, afferma l’autore, la diagnosi è più accurata. Ma solo il 48 per cento delle persone con demenza sono individuate, il 52% nemmeno sa di avere un deterioramento mentale in atto.

Ma cosa succede nel cervello? Una proteina naturale, la beta-amiloide si deposita sotto forma di placche, all’interno del cervello con l’Alzheimer, distruggendo i neuroni sani, ed è considerato da alcuni scienziati la causa, da altri la conseguenza tardiva del difetto all’origine.

Una teoria mette sul banco degli accusati la proteina tau (unità associata alla tubulina) che può rallentare i messaggi che viaggiano tra le nostre cellule cerebrali. Per altri ricercatori, l’Alzheimer è essenzialmente conseguenza di una mutazione genetica, una anomalia di APOE4, apolipoproteina, l’ipotesi è che una alterazione combinata interferisca da un lato con i mitocondri, dall’altro con il metabolismo del glucosio, affamando il cervello, che muore poco per volta per difetti nel rifornimento di energia.

Nessuna teoria è stata dimostrata in maniera univoca definitiva, scrive Jebelli. Ma ognuna ha aperto la strada a un filone di ricerca farmacologica. Questa è una scommessa cruciale, considerando come è andata con i farmaci inibitori delle acetilcolinesterasi, palliativi che offrono un sollievo temporaneo da sei mesi a un anno. Per non dire della serie di studi su anticorpi diretti contro l’amiloide, i titoli di giornale sprecati che annunciavano un imminente vaccino contro l’Alzheimer, un’altra delusione.

La malattia intacca la memoria, lo sappiamo, la sfera cognitiva, confonde il senso dell’orientamento, ma indebolisce anche il sistema immunitario rendendo più suscettibili alle infezioni, purtroppo si può morire, ad esempio di polmonite, per un calo nelle difese. E quando il danno neurologico è importante si assiste allo sfacelo di funzioni fisiologiche basilari, come la perdita del riflesso della deglutizione e il sovvertimento della peristalsi intestinale.

Le ultime notizie sull’Alzheimer alludono alla possibilità di fare diagnosi attraverso la visita oculistica o attraverso marcatori con le analisi del sangue. Sarebbe bello, dice l’autore, ma nella realtà non succede così. Per valutare un deterioramento mentale ci sono test cognitivi, che andrebbero eseguiti periodicamente, affiancati alla diagnostica per immagini, tomografia o risonanza.

“Quando i sintomi iniziano a manifestarsi, l’Alzheimer è già partito da un pezzo. Quindi l’obiettivo attuale è una diagnosi precoce, con la speranza di iniziare a prescrivere al più presto un farmaco che riesca a frenare la malattia, prima che siano irreversibili i danni al cervello”.  Si vorrebbe mettere a punto un trattamento per cronicizzare i processi involutivi, sbarrare la strada al declino della memoria, anche se quello che è perduto sarà perduto per sempre.

“Entro i prossimi cinque anni, conclude Jebelli, sono attesi i risultati di nuovi trial su farmaci innovativi in fase 3″. Ma tanto si può fare anche in assenza di medicinali miracolosi, è necessario da un lato superare l’atteggiamento remissivo, del tipo che non c’è niente da fare, dall’altro occorre sostenere i familiari, che non possono e non devono essere lasciati soli con un malato di Alzheimer, come a volte ancora oggi purtroppo accade.

Alessandro Malpelo

QN Quotidiano Nazionale

Salute