di GIORGIO GUIDELLI
MALLES (Bolzano)
LA MEMORIA ridotta all’osso. O alle ossa. Quelle italiane, tedesche, boeme e cosmopolite dei sacrari altoatesini.
Un mucchietto di erbacce ispide tappezza la tetra superficie del Beinhaus Burgeis, il «mausoleo» alle porte di Resia, sbriciolato dall’esplosivo irredentista un trentennio fa. Avvolti da un sudtirolese oblìo pure i capisaldi dei «sacri confini della patria» di Colle Isarco (Beinhaus Gossensaß) e San Candido (Militärfriedhof Innichen), che, avvisano dai masi sui pratoni in quota, «sarebbe meglio abbattere o, alla peggio, coprire con qualche abete del Sud Tirolo». Ospiti ingombranti, «diciamo pure vergognosi e irrispettosi della nostra gente», sillaba uno dei «bravi ragazzi» della Val Passiria, rigata dai vigneti e meleti, placidamente cullata dai suoi mulini ad acqua. A Lagundo (Algund), sulla strada per la birreria Forst che pare un enorme orologio a cucù, un chilometro e poco più da Merano, additano questi residuati bellici in pietra scura come «orride espressioni di Mussolini». Metterci una corona commemorativa sarebbe una bestemmia «per la nostra gente. Guardi, vada su, a Passo Resia. Sa quel campanile che sbuca dall’acqua? E’ uno dei capolavori del vostro duce. Quello là sacrificò comunità antichissime in nome di energia elettrica».
 
E SUGLI OSSARI sventola giusto uno sbiadito tricolore, impallidito rispetto alle vivaci tinte nazionali e dei praticelli verdi dei «war cemetery» d’Italia. Il cimitero polacco alle sponde del Savena è un giardino che fiorisce di rispetto e memoria. Quassù, memoria italiana, è una parola stonata: lo vedi appena varchi quegli ingressi dei sacrari. Spenti. Timidamente italiani. E commemorativi. «Ma sì, è più straniero un italiano in Sud Tirolo che un polacco in Emilia Romagna», commenta Marcello De Grandis, novello Goethe dei «confini», che sbircia tra i loculi dei militi ignoti di Resia. Alessandro Urzì, voce dell’opposizione, consigliere regionale Fli del Trentino Alto Adige e provinciale di Bolzano, chiosa, sarcastico: «In una situazione come quella che viviamo quassù, direi che va anche troppo bene. Qui vogliono rimuoverli, gli ossari. O coprirli. Come è successo col monumento alla vittoria di Bolzano».
 
UN ANNO FA, dopo una convenzione con lo Stato, gli ossari sono stati, sostiene il presidente della provincia autonoma di Bolzano, Luis Durnwalder (Südtiroler Volkspartei), «contestualizzati». Ovvero dotati di pannelli esplicativi in tre lingue, redatti da «esperti», che in sostanza indicano quei luoghi come strumentali al regime: il fascismo. Urzì non ci sta: «Raccontano la storia con tono polemico. E allora, in questo clima, è già un successo che ancora i nostri militari riposino in pace. Tra l’altro, quassù, ci sono anche nomi di altre etnie». Eppure, su queste cime, a Resia, un contadino che  biascica una manciata di parole in italiano corrente, ricorda ancora «le ossa ovunque». Di trent’anni fa. L’ultimo fuoco che devastò il sacrario. Gesticola, col tradizionale grembiule blu al collo: «Ah, no, qui ossa. Teschi. Noi abbiamo raccolti tra i prati. Cosa vuoi, è così. No?». Ma le raffiche non sono finite: «Nuovi atti di vandalismo hanno colpito i nostri ossari», avverte Urzì, che in questi giorni sta combattendo alacremente contro il Consiglio provinciale di Bolzano. Che, il 7 giugno scorso, ha approvato una mozione, presentata dal movimento «Suedtiroler Freheit»,  in cui si afferma che «il testo dell’Inno (d’Italia, ndr) è un vero affronto per l’Alto Adige; parole come stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte sono espressione di una ideologia che disprezza il genere umano ed è ostile alle minoranze linguistiche». E non è niente, si rassegna Urzì: «Qui provocazioni del genere sono all’ordine del giorno».
 
MA INTANTO il Sud Tirolo va. E viaggia a manetta. Coi suoi trenini vallivi, semina le nostre alte velocità appenniniche e padane: «Tre per cento di disoccupazione per eccesso (considerando i lavoratori stagionali, e dunque praticamente a zero), Pil pro-capite più alto della Penisola (34.700 euro) e 28 milioni di pernottamenti turistici stagionali», sfoggia Luis Durnwalder,  «Durni» per l’etnia italiana, «podestà» della Provincia autonoma di Bolzano, in giunta da 39 anni, presidentissimo dall’88. «Gli ossari italiani? — si domanda “Durni” — Vanno sistemati, riparati, ma va pure spiegato perché si trovano lì». Così come il monumento alla vittoria, quello di Bozen: «Come si dice: va contestualizzato, sì…», scandisce nel suo italiano. E tira in ballo un’altra faccenda, ancora molto poco chiara: «Noi siamo contro ogni terrorismo — spiega — ma chiediamo amnistia». Per gli ex terroristi altoatesini, per i «bravi ragazzi della Pustertal», che Eva Klotz, la pasionaria della val Passiria, ribattezza «combattenti per la libertà del Sudtirolo», «padri di famiglia che si preoccuparono del futuro dei loro figli».
 
SEGNALI di disgelo sulla grazia sono arrivati dal Quirinale, anche nell’ultimo vertice Napolitano-“Durni”. E in questo senso l’Italia è andata incontro al Sud Tirolo. Ma a Eva Klotz, che, gentilmente, si assenta dalla seduta della Provincia per colloquiare col cronista del Qn, non basta. Assolutamente. «E’ uno scandalo — condanna — perché le Brigate Rosse o il terrorismo fascista sono stati graziati. Non possiamo dire lo stesso per i nostri padri. Perché?».
 
IL BILANCIO degli antenati degli anni di piombo, a sud del Brennero, fu drammatico: dal ’56 all’88, 361 attentati con dinamite, mitra, mine antiuomo. Risultato: 21 morti, tra cui 15 appartenenti alle forze dell’ordine. Una mini guerra. «Patriottica» per i sudtirolesi, «criminale» punto e basta per l’Italia. Alois (Luis) Larch, dopo aver riparato a Graz, ha ottenuto la grazia nel 2007 (pochi mesi prima che la pena si estinguesse per prescrizione) e nel 2008 è rincasato a Lana, riabbracciato dagli Schützen.  Erhard Hartung è stato eletto alla consulta locale per stranieri del comune di Meerbusch. Hartung gestisce con Peter Kiensberger fondazioni altoatesine.
 
TUTTO QUESTO mentre Eva la pasionaria scandisce che l’Italia «evidenzia un problema di mo-ra-le». E che si deve fare il referendum «perché deve decidere la maggioranza. Noi non siamo italiani. Siamo tirolesi di madrelingua tedesca». Il suo modello: la Confederazione Svizzera. La nostra è «una questione di giustizia». Un refrain. Una canzone che Roby Facchinetti, all’alba dei Pooh e quasi al tramonto dei fuochi sudtirolesi, rimodulò così: «T’hanno ammazzato / quasi per gioco / per dimostrare alla gente / che tra quei monti / la voce del tempo / degli uomini uccisi / non deve contare più niente». Era il ’66. Ma la memoria, stavolta, è davvero ridotta all’osso.