Sagra del cervo, sagra della polenta, sagra del cavolfiore, sagra della ciambella, sagra della polpetta. Sagre a tutta birra. Già: la birra. Quella, poi, è la più abusata. Soprattutto nelle zone industriali. Magari al sapore di piscio. Pungente. Poi c’è anche la sagra della mozzarella in carrozza. O della nonna in carriola. Agghindata con gli orpelli finti. Ma che sbadati: abbiamo scordato i panni in velluto bicolori, i copricapo improbabili, gli stemmi di una storia a cui fare una tara pari a una cassetta di zucchine comprata al mercato ortofrutticolo. Lo dico col cuore: ieri ho attraversato le campagne marchigiane. Mi veniva da vomitare. Rievocazioni e palii a nastro. A ciascuno il suo. Sestieri, quartieri, contrade, bandi, tamburini, sfilate. Ostentazione di una storia low cost. Al sapore di penne, pesce fritto, salsicce di supermercato. Non c’è bisogno di tutto quel fumo per ritornare alle radici. Fateci caso: laddove, veramente, la tradizione vive, le sagre non esistono. O sono quotidiane. Mi vengono in mente le contrade del Sud Tirolo.

Non s’indossa un camice d’un certo colore alla sagra. Non si aprono taverne una settimana o un weekend all’anno. No: lì è così. Punto. Eppure è la patria della birra. Del coscio d’agnello. Dello stinco. Ma le sagre, quelle, non esistono. La sagra è un qualcosa che cerchiamo dentro di noi. Ma che per il resto dell’anno non abbiamo. Semplicemente: cerchiamo ciò che non siamo. E vogliamo apparire. E allora giù stendardi, bandi, colori e bandiere. Qualcuno lo dica alle pro loco: l’economia si muove con l’autenticità. Che non è solo una questione turistica. In Romagna pullulano queste rievocazioni da quattro soldi bucati. E, magari, mentre sei a spasso per i cosiddetti borghi, la casa dipinta color canarino ti fa venire un colpo al cuore. La tipicità è un modo di vivere. Di essere. Non un abito. E neanche una cassa di risonanza. Quel mondo non c’è più. E, forse, non c’è mai stato. Diverso è per chi l’ha conservato. E ne ha fatto ricchezza. Muovendo l’economia, ma non le sue tradizioni. I suoi costumi. Che restano addosso. Nella felicità e nel dolore. E nella vita di tutti i giorni. Il resto sono fole. Che costano cinque euro. Questa la media d’un ingresso ai parchi tematici della nostalgia contadina globalizzata.