Una delle espressioni più ricorrenti nel mio clan (il clan dei recensori, lobby cui mi onoro di appartenere…) è “romanzo di formazione”. Espressione tutt’altro che scontata e, pur ripetuta con una certa frequenza, sempre efficace.

Pistolotto iniziale per segnalare al lettore l’ultimo romanzo di Enzo Di Pasquale, “Come un tiglio a Gezi Park” delle edizioni il Palindromo di Palermo (a proposito: complimenti per il formato e la confezione del libro. Ottimo il corpo del testo, ancor meglio l’interlinea, bellissima la copertina). Se, dunque, “romanzo di formazione” ben si attaglia a quest’ultima fatica letteraria del Nostro – già noto per il romanzo Ignazia, bellissimo affresco in cui protagonista è la memoria, e per il divertente dialogo letterario con Fabio Stassi I ricordi hanno le gambe lunghe – ci permettiamo di aggiungere che siamo di fronte a pagine “di sensazione”. L’Autore, insomma, riesce, con la parola, a farci effettivamente vivere atmosfere mediterranee, sospese tra Palermo e Istanbul. E proprio la parola “Mediterraneo” caratterizza la bellezza del romanzo. Palermo, che Di Pasquale ben conosce, è tratteggiata con mano ferma. Una Palermo ora simpaticamente indolente (verissima e spassosa la constatazione di come siano approssimativi gli appuntamenti estivi: “Ci vediamo tra le dieci e le undici, o meglio facciamo dopo mezzogiorno”), ora impegnata in lotte sociali di primo livello, come nel caso della protesta degli insegnanti, da sempre anello debole di questa nostra Italia un po’ cialtrona e incapace di capire come la scuola sia (meglio: dovrebbe essere) l’elemento centrale di una vera identità nazionale.

Poi c’è Istanbul, città di cui Di Pasquale è innamorato. Mi permetto di dissentire sulle forze e le capacità di quel che resta della Turchia laica, di quella Turchia, oramai drammaticamente minoritaria, che guardava all’Europa e non portava il velo. A Istanbul c’è un protagonista assoluto – che è poi quello che dà il titolo al romanzo: il tiglio a Gezi Park. Un tiglio che nasce e che muore, piantato da Acelya come inno alla vita, come struggente ricordo della mamma, la bellissima Latifa, di cui più non vi riveliamo per non guastarvi la lettura. Acelya, che ha un padre fantastico, positivo e tormentato. Acelya che compie un gesto all’apparenza di egoismo e che invece è di amore. Acelya, che vola in mongolfiera per parlare con l’aldilà. Le mongolfiere (elemento centrale della già lodata copertina) come metafora della libertà e, soprattutto, come mezzo per incontrare chi ci ha lasciati. Acelya che prende coscienza della realtà politica andando nel parco dove ha piantato il tiglio, poi distrutto dalla furia neoliberista che ha portato l’Europa alla (quasi) rovina.
Ma l’universo dei protagonisti di Di Pasquale non si esaurisce qui. C’è Elisa, giovane docente precaria che ama la letteratura e si batte contro le ingiustizie di questi tempi di assoluta incertezza. Un’incertezza che si sostanzia nel tenore generale del romanzo. Tutti sono fra coloro che son sospesi. Carlo, il fidanzato di Elisa (ma per quanto?). Il medico Gioacchino Savonari che, tradito dalla moglie, è fuggito. Una fuga che lo riporta al mondo. Una fuga che molti di noi hanno sognato. O che hanno fatto non pentendosene dopo momenti di terrificante tristezza e solitudine. Una fuga che, però, non lo metterà al riparo dalle responsabilità. Una su tutte. Terribile (ovviamente non la svelo).
Ma la vera protagonista è un’altra persona. Che tutto unisce e che fa da ponte fra i vari destini. Perché la vita, ce lo insegna Italo Svevo, non è né bella né brutta. Ma solo originale. Leggete il libro e capirete perché. Leggete il romanzo perché serve a capire la solitudine del nostro agire. E di come, in fondo, ognuno sia padrone del proprio destino.
Ciò detto, azzardo un paio di critiche.
La prima: i dialoghi tra Carlo ed Elisa andavano curati di più. Sono eccessivamente semplificati e caratterizzati da troppi stereotipi.

La seconda: Di Pasquale è ormai autore di certa presa letteraria. Non può permettersi scivoloni stilistici. Pochi esempi: “Era come se l’avesse conosciuta da sempre”. “Avverte il peso delle responsabilità”. “Sfoderò l’asse nella manica”. “Tre bei bicchieroni”. “Leggero rossore sulle guance”. “Fu inondato da un odore di frittura”. “Lavorava presso la redazione centrale” .
Molto buono, invece, l’uso del presente. Un po’ alla Markaris. Non male. Si vede che Di Pasquale ha tenuto corsi di scrittura in Grecia. E li ha tenuti bene.