Tengo sempre la mano sulla fondina quando un politico scrive un libro. Perché i libri dei politici sono delle palle mostruose oppure raccolte di riflessioni che, almeno di questi tempi (durante la Prima Repubblica era diverso o forse, data la mia beata gioventù, avevo più pazienza), denotano tutta la pochezza di quelle che un tempo erano le “classi dirigenti”. Anche perché i politici non scrivono quasi mai romanzi o opere che profumano di letteratura, ma instant book di scarso appeal. Tutto questo per dire ai miei sparuti lettori che ci sono lodevoli eccezioni. Penso alla “Ragazza dei passi perduti” di Caprarica e Rossi o ai romanzi di Dario Franceschini o a Giulio Andreotti con il divertente “Operazione via Appia” di poco più di vent’anni fa. C’è però un politico che sembra non aver mai, piacciano o meno le sue opere, trascurato, anche nei momenti di più intesa attività, la passione letteraria. Mi riferisco a Walter Veltroni, autore di molti romanzi, tra cui il bellissimo “La scoperta dell’alba”. Romanzi dove la memoria e il presente come legittimazione del passato sono i fari attorno a cui ruotano le parole dell’ex sindaco di Roma, dell’ex allievo di Berlinguer, del “padre nobile” di un partito, il Pd, che di “nobile” – e di sinistra… – ha ormai ben poco.

La lunga premessa per dire che “Assassinio a Villa Borghese”, edito da Marsilio, ultima fatica del Nostro, va letto. Per divertirsi. Per gustare una prosa semplice. Per apprezzare una trama ben costruita. Per rendersi conto, come amava dire Italo Svevo, che la vita non è bella né brutta, ma originale. In apparenza il romanzo di Veltroni è un giallo. In apparenza. In realtà si tratta, e su questo mi pare che la critica sia concorde, di un grande manifesto d’amore verso Roma, coi suoi colori abbaglianti che possono trasformarsi in cupi scenari di paura, e come una presa d’atto che, sì, “il futuro è passato, e non ce ne siamo nemmeno accorti”, ma che una possibilità di riscatto è sempre possibile. In tal senso, il protagonista, il commissario Giovanni Buonvino ne è la dimostrazione. Ovviamente non sarebbe carino raccontare il motivo di questa osservazione. Ma fidatevi del vostro recensore. Anche perché, più in generale, mi pare che, proprio nel disegno dei profili dei buoni e dei cattivi (che non sono del tutto buoni o del tutto cattivi), risieda un altro punto di forza del romanzo. E quindi hai il poliziotto vedovo che sostiene di avere una figlia e con cui parla al telefono (salvo scoprire una tristissima verità); hai due gemelli che inquietano; hai una bellissima e bravissima agente sempre pronta nel lavoro e nel sentimento; hai un malinconico poliziotto di colore che parla col suo destino; hai due colleghi, odiosi, che si prendono gioco di Giovanni e molto altro ancora.

Direte: e la trama? Per volere di un sindaco cocciuto viene istituito un commissariato nella splendida Villa Borghese. Lì, in quel paradiso di una Roma che tanto paradisiaca non è più, avvengono atroci delitti su cui Giovanni Buonvino e la sua squadra – una banda di sfigati, perlomeno all’apparenza – devono indagare. Anche perché, prima del loro arrivo, poco era successo. E qui Veltroni gioca assai bene riportando episodi di cronaca vera. I personaggi appaiono, nessuno escluso, compreso il fotoreporter che vuole sfondare a tutti i costi seppur con una qual certa eleganza, degni di un libro di Cesare Lombroso, anche se, a lettura terminata, ti viene da pensare che anche chi sta attorno a te non sia tanto normale…

Il giallo è ben ritmato, non ha sbavature e, appunto, è un affresco, con tratti sottilmente ironici, della Capitale. Attenzione: nessuna Grande Bellezza (per fortuna), ma la storia di un presente che appare incerto. Chiederà il lettore: ma la politica? Veltroni non se la dimentica (come non scorda il cinema), anche se resta fedele alla sua cifra estetica. E quindi i riferimenti alla Raggi, a Salvini e a Renzi, ci sono. Distaccati, diciamo. Si vedano le pagine 26, 68, 93. Così, tanto perché voglio fare il recensore un po’ pedante. Però, date retta a uno che, diversamente giovane, ha, in un passato un po’ lontano, praticato 35 anni di onesta e attivissima cittadinanza capitolina: il romanzo va letto tenendo conto di chi è la vera protagonista. Con le sue paure e le sue speranze. E i suoi tramonti ineguagliabili.


Francesco Ghidetti