Capita di immergerti in un romanzo non perché hai letto una recensione sul giornale. Non perché ti ha attirato la copertina. Non perché un amico te lo ha consigliato. Macché. Capita di leggere un libro perché capisci al volo, insondabile magia, che si parla di te. Di te come generazione. Di te che sei nato in un determinato periodo. Insomma, leggi per rigustare, dolce o amaro fosse il sapore, gli anni che, accidenti a loro, sono passati. Non si tratta solo di nostalgia. Né del fatto che, poche chiacchiere, sei entrato appieno nelle fasi finali del girone di ritorno della vita. Potrebbe essere la necessità di avere finalmente chiaro uno scenario, di riconoscere la tua gente, di decifrare con immediatezza i tic del tuo passato, di estraniarti per qualche ora da un presente assordante e poco decifrabile nelle sue infinite stranezze. Un pausa con effetto terapeutico in tempi grami come quelli di adesso. Oppure, riconoscendoti nella storia che leggi, potresti capire che tutto è trasfigurato dal ricordo.

E’ una lunga e pedante introduzione, lo so, ma serve a certificare la bellezza di un romanzo, non facile, di Lorenzo Pavolini: “L’invenzione del vento” edito da Marsilio (e un plauso all’editore è d’obbligo perché ha fatto un bel colpo). Pavolini è nome di sicuro interesse: non è un esordiente, bensì uno scrittore di solido rendimento, che adopera una prosa gaddiana e perciò tutt’altro che agevole. E se usi una lingua elaborata e riesci a non stancare il lettore sei davvero sopra la media.

Pavolini narra la storia di Giovanni e di Pietro, nati negli anni del baby boom, quindi tra il 1963 e il 1964, appassionati di uno sport che, quando eravamo giovani, stava diventando quasi di massa: il windsurf. Mi ricordo perfettamente anch’io – che mai e poi mai sarei salito sopra quei cosi – l’improvviso boom di quei surf particolari che solcavano, a volte avvicinandosi troppo, le coste di tutt’Italia (nel mio caso ne ricordo tanti a Fregene e a Lido di Camaiore dove andavo in vacanza). Una vita scandita dal vento e dalle acque, un rapporto tra due amici che si evolve. Pietro, figlio di un benzinaio di Corso Francia a Roma, portato agli ‘affari’ e scarsamente interessato allo studio. Giovanni, di buona famiglia, ossessionato anche lui dalle tavole da windsurf , studente diligente e bravo. Due ragazzi che, lungo il cammino, vedranno le loro strade dividersi. Pietro farà affari addirittura a Miami, Giovanni resterà a Roma (che fa da sfondo, e lo fa benissimo, a tutto) tra case editrici e impegno politico più o meno convinto. Ecco, è interessante notare, non so se Pavolini lo ha fatto di proposito oppure inconsciamente, come l’autore indovini e descriva perfettamente il ‘dramma esistenziale’ di quella generazione. Da una parte sfiorata dal ‘tutto è politica’ dei fratelli maggiori, dai cupi anni di piombo e dall’impegno totalizzante; dall’altra vittima, più o meno consapevole, di quello che chiamavamo “riflusso”, metafora (diventata poi un mantra un pochino irritante) del disimpegno. E ancora: caduti i Muri e tante idealità, quella generazione è stata poi costretta a fare i conti con un estenuante gioco al compromesso (in tal senso la figura di Giovanni è pennellata con rara maestrìa) sino ad arrivare a scoprire che le contraddizioni venivano sfrontatamente esplicitate proprio da chi voleva fare il rivoluzionario di professione aderendo alle formazioni più estreme (quel disgustoso brodo di coltura che va sotto il nome di ‘lotta armata’) salvo poi ritrovarsi, senza nemmeno un minimo di autocritica, dall’altra parte della barricata. In tal senso la morbosa (o sessualmente emancipata, fate voi) prof Cristina ne è l’esempio lampante. Al contrario – e, tutto sommato, tra i protagonisti di seconda fascia ci sembra il personaggio più azzeccato -, assai tormentato, con punte di involontaria comicità, è Franco, l’intellettuale innamorato di mille donne, che vuole evadere dal presente girando il mondo in barca e che poi si ritrova a dirigere la Rai con esiti catastrofici.

E i due protagonisti? Nelle ultime pagine il bilancio che Pavolini fa riporta alla mente una frase di Italo Svevo che amo spesso ripetere: “La vita non è bella né brutta, ma originale”. Insomma, poteva andare peggio. Però anche meglio. Molto meglio. Un dramma che, e per questo consigliamo la lettura dell’”Invenzione” più che altro a chi veleggia tra i cinquanta e i sessanta, scolpisce, mentre scrivo, tanti ex ragazzi. Smarriti di fronte a un presente che sembra illogico e ansiogeno e un passato di cui forse non si sono colte tutte le opportunità. Vai a sapere. Fosse solo nostalgia di quello che non si è mai avuto?