Dice: «Antonio Pennacchi ne combina un’altra delle sue». Cioè: «Scrive gialli». Non è vero.

Dice: «Come no. Indaga su un delittaccio avvenuto, in duplice copia, negli anni Novanta del secolo scorso». Sono 184 le coltellate inferte sui corpi dei fidanzati Loredana e Emanuele ad Agora («con l’accento sulla prima a») che è «un paesaccio che sta sulla montagna». Un ‘paesaccio’ dei Monti Lepini laddove, nelle notti serene, si vede Roma e dove il contesto geografico è quell’Agro Pontino pilastro delle fortune letterarie di uno degli scrittori da me preferiti. Come non ricordare, infatti, Il fasciocomunista (un capolavoro) del 2003 oppure Canale Mussolini (ma il primo è il migliore, datemi retta)? Romanzi fondamentali per capire il nostro ‘secolo breve’, il tormentatissimo Novecento.

Ma torno all’inizio di queste noterelle. Pennacchi non scrive un romanzo giallo, però s’impiccia dei fatti degli altri per restituirci il quadro di una società sempre sull’orlo di una crisi di nervi. Una società tormentata che canta in un coro viziato da molte (troppe) stecche. Verrebbe da scrivere che Pennacchi gioca a fare il novello Gadda, con però un’aggravante (sto scherzando, ovviamente): ci regala, rispetto al Gran Milanese, una scrittura piana e chiara, semplice. E quindi il delitto (ma si trova il colpevole? è forse il condannato?) resta in secondo piano. Vera protagonista è la società (malata) che dovrebbe far da ‘contesto’ alle vicende narrate e che, invece, conquista il centro della scena. Tra ‘voci di popolo’ (quanto di più micidiale possa esserci per la serena convivenza di una comunità), inquirenti distratti, penalisti arruffoni e psicoanalisti da operetta. Tutto si tiene, per carità. Ma la mia impressione è che Pennacchi abbia voluto togliersi qualche classico sassolino dalla scarpa per fare opera pedagogica, educativa. Mi spiego: lo scrittore di Latina (lì è nato e lì vive) avverte, con drammatica leggerezza si potrebbe dire, sui pericoli della provincia che pure non è distante da Roma. A dimostrazione di ciò (e di quegli anni Novanta di così scarso spessore rispetto ai frizzanti Ottanta) il fatto che il riferimento temporale dei paesani sia scandito sempre e comunque dalla tv, vera compagna di vita di una preoccupante massa di italiani specie in quel periodo.

Il nuovo romanzo di Pennacchi, oltre a mostrare in tutta la loro malinconica vacuità, le debolezze umane (droga e sesso a pagamento in primis) è un qualcosa a metà fra l’indagine sociale e la ricerca storica. Zeppe di citazioni – il che spesso ha fatto arricciare il naso a qualche critico e non si capisce perché – le pagine pennacchiane ci illuminano sulla storia antica e recente con dovizia di particolari e demolizioni di luoghi comuni (si veda il caso di Nerone e Caligola descritti dai loro contemporanei come mostri).
Insomma, un romanzo da leggere che ebbe una prima, diversa, versione vent’anni fa. Ma questo particolare, così interessante per molta parte della critica, pare a me decisamente secondario. Certo, resta quella ‘‘nuvola rossa’’ che potrebbe offuscare le nostre menti e farci commettere i più atroci delitti. Una nuvola inquieta e inquietante. Come le ‘voci di popolo’. Da cui fuggire. A gambe levate.
PS Fantastiche le pagine sui presunti complotti dei servizi segreti.
Antonio Pennacchi, Il delitto di Agora, Mondadori, 18 euro