CAMP FUNSTON, Kansas, 4 marzo 1918: Albert Gitchell non ce la fa più. Mal di gola. Brividi. Un martello picchia le tempie. Naso chiuso. Decide di andare in infermeria. Poco dopo – verso l’ora di pranzo – altre cento persone, con gli stessi sintomi, lo seguono. Nella settimana successiva il numero dei malati cresce. Il capo ufficiale medico decide di requisire un hangar per sistemare tutti i malati. Circa un mese dopo o poco più, in tutto il mondo altre 500 milioni di persone seguono Albert. L’influenza scoppia. Tutti la ricordano come “la spagnola”, pandemia che, forse, fa più vittime della Prima e della Seconda guerra mondiale messe insieme. Insomma, un secolo fa il più micidiale killer del Novecento comincia a seminare morte.
Una tragedia collettiva e storica che solo negli ultimi due decenni la storiografia studia con passione. Le tragedie private sono milioni. Il lettore, qualunque età abbia, provi a indagare. A chiedere in famiglia. In pochi non hanno un parente che, in quegli anni terribili, non venga colpito dalla spagnola.

VALE A DIRE, stando a quanto ci racconta Laura Spinney (L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo, Marsilio editore) la più grande ondata di morte dai tempi della peste nera, a metà del Trecento. Superiore alla Grande Guerra (17 milioni di morti) e alla Seconda guerra mondiale (60 milioni di morti). Difficile stabilire con certezza il bilancio complessivo finale. Le cifre sono agghiaccianti: si parla, per difetto, di 50 milioni di vittime; per eccesso di 100 e passa milioni. Il che vuol dire dal 2,5 al 5 per cento della popolazione mondiale. Uomini illustri, scrittori di grande fama entrano nel mirino del killer.

L’8 NOVEMBRE 1918 lo scrittore svizzero naturalizzato francese Blaise Cendrars (1887-1961) si presenta in boulevard Saint-Germain 202. Il portinaio lo ferma: «Monsieur, il signore e la signora Apollinaire sono malati». Blaise sale le scale di corsa. Bussa con forza alla porta. Qualcuno lo fa entrare. La scena è raccapricciante: «Apollinaire era sdraiato a letto. Ed era tutto nero». Il poeta muore il giorno dopo. I funerali si celebrano il 13 novembre. Due giorni prima viene firmato l’armistizio. Ma le esequie non sono facili: c’è troppa confusione nel cimitero di Père-Lachaise. La gente esulta. Si abbraccia. Si mescola. Si bacia. Festeggia la fine di quello che il Papa definisce «l’inutile massacro», la Prima guerra mondiale. Tutto si mischia. La spagnola ha vita facile. Contagia. Ammazza. Uccide popoli in festa per la conclusione del conflitto che chiude davvero il XIX secolo e apre il ’900, “il secolo breve”.
MA PERCHÉ “spagnola”? La spiegazione è politica. Madrid non partecipa alla Grande Guerra. Quindi la censura ha maglie larghe. Al contrario di quanto accade nei Paesi belligeranti che non possono certo ammettere, di fronte all’opinione pubblica, che il nemico non è solo il piombo dei cannoni e delle ami, ma anche un maledetto batterio. Quindi, tutti dicono che il Male viene dalla Spagna. È una strage con conseguenze apocalittiche. Chi guarisce deve sopportare anni di depressione. Ne sa qualcosa Katherine Anne Porter, la più importante scrittrice texana, nata nel 1890 e morta, novantenne, nel 1980, amica di Diego Rivera, in prima fila nel sostegno alla rivoluzione messicana, che difende Sacco e Vanzetti, che si ammala. Perde tutti i capelli. Poi le ricrescono. Bianchi come il latte. Ne sa qualcosa di questa “spagnola” anche D.H. Lawrence. L’autore dell’Amante di lady Chatterley, manifesto della letteratura erotica, contrae il morbo. Guarisce. A caro prezzo. I disturbi su cuore e polmoni si fanno sentire per tutto il resto della vita.

LA VERA protagonista nella lotta contro la spagnola è la donna. Forte, tenace, anello di collegamento tra “personale” e “collettivo”: cura i malati, compone le salme, si occupa degli orfani. E riporta alla vita. A Rio de Janeiro, dopo la fine della pandemia, dilaga un’allegria di sesso sfrenato e gioioso che porta a un baby boom. Nascono tantissimi bambini.
Restano i ricordi del Male. Che assumono le fattezze di un romanzo d’appendice. Scrive una sopravvissuta: «Il corpo cominciò a decomporsi molto in fretta e il petto si sollevò letteralmente tanto che fummo costretti a premere sul mio povero fratello due volte e contemporaneamente a chiudere il coperchio della bara». Autopsie spaventose: i patologi trovano i polmoni rossi e gonfi, congestionati di sangue emorragico e ricoperti di una patina rosa e acquosa. Le vittime dell’influenza muoiono soffocate dai loro stessi fluidi.
Per chi sopravvive c’è la depressione. Ma, in molti casi, anche la gloria. Ataturk fonda la Turchia moderna, quella che Erdogan, ai giorni nostri, sta distruggendo. Virginia Woolf scrive La signora Dalloway (1923). James Joyce l’Ulisse (1922). Il tutto mentre Munch dipinge l’Urlo.