Ciro è un ragazzino di dieci anni, figlio di una famiglia di camorristi, a sua volta destinato a una vita di violenze.

Gabriele Santoro è un professore di pianoforte al conservatorio San Pietro a Majella. Le loro vite non si sarebbero mai incontrate in quella Napoli attraversata da mille fiumi di dolore, paura, speranza, ricerca di una felicità forse impossibile se il bambino non fosse stato protagonista di un crimine. Insieme a un amico ha scippato un’anziana signora. Che, però non poteva, non doveva essere scippata. E’, infatti, la mamma di un boss di camorra, molto potente e molto, molto cattivo. Si capisce subito che la donna si è fatta male assai. Infatti, pochi giorni dopo, muore. La caccia agli scippatori da parte della camorra si scatena. Ne fa le spese il giovanissimo complice di Ciro, che viene ritrovato in un pozzo. Lo piangono, “è stata una disgrazia”, ma tutti sanno che non è così.

E Ciro? Si nasconde dove meno, per lo meno all’inizio, te lo aspetti. Pochi piani sotto l’appartamento dove vive (quartiere Forcella), in casa del taciturno e solitario professore di musica. Come abbia fatto a entrare è difficile da spiegare. Ma è un dettaglio. Gabriele lo accoglie e tra i due comincia un percorso di formazione. Perché quello di Roberto Andò è un romanzo di formazione impreziosito, oggi sono in vena di citazioni colte, da un affresco terribilmente reale di Napoli, una “Napoli a occhio nudo” di fuciniana memoria.

La scrittura dell’autore, ben articolata, chiarissima come piace a me, racconta, con impietosa naturalezza, l’assoluta banalità del male e fotografa il bene, se così si può dire, con altrettanta sincerità. Il che non mi sorprende né dovrebbe sorprendere chi mi legge. Andò, palermitano, classe 1959, è regista di teatro e cinema fra i più apprezzati. Inutile tracciarne la biografia, la trovate dappertutto. Quel che mi interessa sottolineare è che nella scrittura di questo romanzo (“Il bambino nascosto”, euro 17, La nave di Teseo colpisce ancora e colpisce bene) si coglie l’ottima formazione letteraria di Roberto. Non solo nelle citazioni di Kavafis, Ortese, Canetti, Hemingway e via dicendo sparse per il romanzo, ma nella capacità di descrivere luoghi e paesaggi con assoluta maestria. Insomma, il… ragazzo ha fatto buoni studi e si vede che è allievo di Leonardo Sciascia.

I personaggi sono delineati con mano ferma. Il protagonista assoluto (anche se si tratta di una definizione che non ho mai sposato appieno) è il professore. Taciturno, vive da solo, vive di musica, ama la letteratura; si è come autoesiliato per una serie di ragioni che è difficile comprendere subito e appieno; ha un rapporto col fratello magistrato ormai inaridito – anche se, alla fine, proprio il fratello avrà un ruolo decisivo; vede la sua storia familiare attraverso flash back improvvisi venati da una leggera e malinconica nostalgia; vive con un certo qual disagio, specie di fronte a Ciro, la sua omosessualità; non suona più in pubblico da tempo immemore; ama moltissimo il padre, ma anche lì il rapporto è irrisolto.

Ciro, invece, è un bimbo di dieci anni cresciuto tra violenze e violenti; si affeziona a Gabriele come a un padre che non ha mai avuto; cerca, prendendo coscienza della suo essere nato nel posto e nella famiglia sbagliata, di trovare una via di fuga. Una fuga che si concluderà non vi dico come. Di certo, la crescita di entrambi, di Gabriele e Ciro è la parte decisiva che permea e fa capire questo romanzo. Così come molto importante è il tempo che scorre. Un tempo insidiato: “Tenere lontana la noia – si legge a inizio dell’opera -, e sottrarre il nostro respiro al controllo dei guardiani del tempo, il segreto del vivere è tutto qui”. Parole sante. Come parole sante sono un po’ tutte quelle che riempiono la bella fatica del nostro Autore. Fatica in cui l’uomo colto e tormentato, l’uomo che si difende con lunghi silenzi, l’uomo che capisce la durezza della sfida, affronta il male. Vincendolo, in un certo senso. Con un finale, tutto sommato, che non ti aspetti, ma che insegna molto. Sull’amicizia e sulla necessità di non cedere alla paura. Specie se si ha una paura fottuta.

Francesco Ghidetti