Se amate la letteratura e vi piace respirare avidamente le emozioni, ecco il romanzo giusto: “Niente caffè per Spinoza” di Alice Cappagli (Einaudi, 17.50 euro, nella prestigiosa collana dei Coralli).

Inizio di recensione forse un po’ troppo essenziale e anche banalotto.

Ma lo stupore per la bellezza di questo romanzo è tale che mi sforzo di mantenere il giusto distacco, come sempre dovrebbe fare il critico di mestiere. Impresa titanica, davvero.
Le pagine della Cappagli (autrice che, ammetto, non conoscevo) sono luminose, bellissime, piene di sole, insomma sono labroniche. Livorno è città a me assai cara – è tutta la vita che la inseguo come un amante respinto – e ha alcune caratteristiche che la fanno unica in questa Italia impaurita e depressa. No, non mi riferisco all’abusato cliché della livornesità un po’ becera, che “fa ridere”. Non mi riferisco nemmeno alla città “famosa” per le teste di Modì, quelle false, che hanno macchiato ingiustamente il suo nome e la sua storia in senso negativo (e mi fa piacere che Alice sia sulla stessa linea: “Bischerate”). No, la mia mente corre alla sua storia, una storia di libertà e cosmopolitismo, una storia di accoglienza rara a trovarsi, specie di questi tempi. Una città letteraria per eccellenza, insomma, che però non esprime quasi mai le sue potenzialità artistiche. Per questo motivo sono rimasto a bocca aperta nel leggere queste pagine.

Maria Vittoria, quarantenne con un matrimonio che va alla deriva, perde il lavoro. Ne trova un altro, un po’ bizzarro. Deve assistere un anziano professore di filosofia che dice di aver perso la vista e che ha una famiglia scombinata, per alcuni aspetti misteriosa (e il mistero non si scioglie del tutto nemmeno alla fine), affettuosa, assai livornese. Un’assistenza particolare. Maria Vittoria, infatti, non deve occuparsi solo di far da mangiare, di pulire, di lavare, di controllare che il vecchio non si faccia del male, ma deve leggere, su richiesta, alcuni brani di pensatori immortali. L’impresa non è facile, ma alla protagonista riesce e tra i due nasce un rapporto di affetto e complicità. Un rapporto tra allieva e maestro così forte che lei, alla fine del romanzo, deciderà di ricominciare studiare dopo essersi lasciata alle spalle molte gabbie che la imprigionavano. E per quanto riguarda la trama mi fermo qui. Tanto chi mi segue sa che il libro deve correre a comprarlo e quindi scoprirà da solo come si dipana la storia e, soprattutto, come va a finire.

La mia attenzione non cade, però, su quello che una volta si chiamava l’”intreccio narrativo”, quanto sulla capacità della Cappagli di rendere, con pennellate dai forti colori, il senso di una paesaggio, il suo profumo, le sue emozioni, le sue paure, le sue speranze. Di esempi ne potrei fare mille: «Il sole picchiava forte e già i colori avevano quell’oro che poi diventa fuoco verso sera, quando il calore resta nell’acqua e lascia la terra. Colori che mettono gioia, forse perché si sa che le giornate sono lunghe». La luce è la vera protagonista: «Entrammo. La luce che c’era in quell’appartamento era la stessa del lungomare, feci fatica a non rimettermi gli occhiali da sole». Ancora: «Casa “mia“ era nella penombra e mi venne per la prima volta da pensare che una casa con poca luce non fa germogliare le speranze».

In primo piano c’è il tempo che passa. Protagonista assoluto è il professore: «Il tempo è una delle cose più inesorabili. Devo tenerlo ben presente», dice. E Maria Vittoria pensa: «Santo cielo, il mio tempo stava volando». Quest’ultimo esempio mi serve a sottolineare quanto Alice sia bravissima nei cosiddetti stacchi: un gioco continuo tra passato e presente, tra i fatti che accadono e i pensieri e i sentimenti che suscitano.

Altri elementi, scritti così, alla rinfusa. In primis una ricostruzione dei luoghi, sembra davvero di essere lì (anche questa frase abusata, non mi viene di meglio). Luoghi chiaramente molto familiari all’autrice, soprattutto amati. Poi il profilo dei personaggi, anche degli attori non protagonisti. Trovo irresistibile il quadretto che la protagonista fa della sua mamma, fra tegami e nipoti, incapace di ascoltare, chissà se l’ha mai fatto, la figlia. Non mancano i bozzetti di livornesità linguistica e di livornesità caratteriale. E, soprattutto, non mancano pagine intere in cui, con prosa semplice ed efficace, si certificano assolute verità: «Quella di religione era l’ora delle cose risapute, quella di filosofia l’ora delle cose incomprensibili». «Avevo una strana sensazione di smarrimento, come mi succede quando sento di perdere qualcosa che ho appena faticosamente raggiunto».

Ma basta così, se no vi levo la gioia di leggere questo bellissimo manifesto d’amore. Un amore di sole, di mare e di vento. Che fa respirare come pochi altri.

Francesco Ghidetti