Settant’anni. Forse il tempo di bilanci. Anche se i settant’anni non sono miei, ma di un personaggio particolare. Lunedì taglia questo traguardo Bruce Springsteen, il Boss della musica, il cantante che ha letteralmente rivoluzionato e scardinato il tempo dei concerti. Certo, forse è rimasto solo in questa strada, ma Springsteen…

La vulgata popolare sostiene che il mondo si divida tra chi ha visto un concerto di Springsteen e chi non l’abbia mai visto. La “forzatura” (ma fino a un certo punto) sarebbe che chi ha assistito a una sua performance dal vivo ha rivisto letteralmente il concetto di concerto.

Vero o falso? Beh, facendo gli auguri al Boss per i suoi 70 anni è inevitabile guardarsi alle spalle e rivivere almeno cinquant’anni di storia personale, contrassegnata con i contatti a distanza con Bruce.

“Born to run”, per esempio, è stato il primo album ascoltato e riascoltato fino ad “arare” quel disco con la puntina dello stereo. Il solito assist dell’amico del cuore, Raffaele Nannetti, il cui fratello, Filippo, appassionato frequentatore di Nannucci (in via Oberdan, dove gli Elleppi dalla copertina leggermente fallata potevano costare 950 lire al posto delle 7mila o più): pesca questo lp.

E’ la folgorazione. Born to run e Thunder Road – e perché no, Jungleland? – diventano degli inni. Qualcosa di magico – alla fine degli anni Settanta non ci sono i telefonini, la rete e la globalizzazione è solo un vocabolo presente sul Devoto Oli – che viene amplificato dalle riviste specializzate di settore.

L’Italia è fuori dai grandi circuiti dei tour di Springsteen, ma si leggono cronache, in riviste più o meno carbonare, che finiscono per rendere leggendaria e quasi mitologica la sua figura. Soprattutto c’è una produzione di bootleg (dischi pirata, registrati con strumenti di fortuna e ovviamente illegali) che fanno capire di cosa siano capaci Bruce Springsteen e il suo grande amico, Clarence Clemons.

Ricordo un Live in Zurich, copertina bianca e faccione di Springsteee con un brano, poi, che non faceva parte della produzione personale del Boss: Santa Claus is coming to town.

Un qualcosa, gli omaggi ad altri autori, che avrei sperimentato in prima persona, il 21 giugno 1985. In prima persona insieme con altre 80mila (o eravamo di più?) persone che assistettero alla prima volta del Boss in Italia. Stadio Meazza in San Siro, ancora senza il terzo anello, ma riempito all’inverosimile. Biglietto a 25mila lire (prevendita compresa) acquistato in una piccola rivendita situata nella galleria tra via Nazario Sauro e via Morgani, a Bologna.

Ricordo anche l’illusione con i vecchi compagni del liceo Sabin, quelli della Quinta F. Chi partita in treno, chi in pullman chi, noi, in una piccola Mini 90 nella quale eravamo inscatolati in cinque. “Ci vediamo alle 16,30, in mezzo al campo”. In mezzo al campo, alle 16,30 di quel 21 giugno 1985, c’erano almeno 10-15mila persone, che vagavano impazzite come si trattasse di un gigantesco formicaio. Impossibile trovarsi.

Tra i bis anche “I can’t help falling in love” di Elvis Presley. Quella sera, magica, con migliaia di accendini accesi (all’epoca andava di moda così), pensammo a una sorta di inedito nella sterminata produzione del Boss. Solo due giorni dopo (non tutto era a disposizione in tempo reale, perché Google era ancora di là da venire), avremmo appurato che si trattava di un brano riconducibile a Elvis.

Prima volta a San Siro, prima volta di una ragazza invitata (dal Boss) a salire sul palco per ballare con lui. Prima volta di un concerto diviso in due parti. E durato ben più di tre ore. Springsteen e Milano. Quante emozioni.

Springsteen rivisto a Torino, tre anni dopo. Nel suo tour e in quello dedicato ad Amnesty International per Human Rights Now.

Springsteen a Milano, ma in tono minore (non se la prenda il Boss) al Forum di Assago, senza la E Street Band.

Springsteen a Casalecchio, nel 1999, seguito saltando per la prima volta, scientemente, una partita di basket che si giocava in contemporanea al PalaDozza. Perché Springsteen è unico. Talmente unico che una delle sue date, all’ombra delle Due Torri, ha un motivo in più per essere indimenticabile nella mia vita. Ancora PalaMalaguti, il 18 ottobre 2002. Nel giorno in cui nacque mia figlia Giulia. Qualche ora prima del concerto, per fortuna.

Poi, dopo tanti palazzetti – una volta, al PalaMalaguti, mi trovai vicino a un biondino che mi pareva di aver già visto (era Massimo Ambrosini, centrocampista del Milan, in libera uscita con cappellino calato sulla fronte e zainetto sulle spalle) – il ritorno ancora a San Siro.

Il Boss ammirato al Franchi di Firenze, ancora al Comunale di Torino e persino al Prater di Vienna (con tanto di velleitario appostamento davanti all’hotel Sacher, sperando che potesse spuntare, in qualche modo, a sorpresa). Al Prater, in terra straniera, convincendo mia moglie Maria Grazia e le figlie, Valentina e Giulia, che una piccola vacanza a Vienna, in pieno luglio, ci avrebbe regalato emozioni uniche.

Pochi altri artisti, credo, hanno scandito e in qualche modo condizionato la mia vita. Persino un desiderio realizzato. L’ultima volta a San Siro. Non ero mai riuscito, prima di allora, a godermi, dal vivo, Jungleland. Che aveva cantato e suonato mille altre volte. Ma mai in mia presenza. Mi tornano in mente i goccioloni d’emozione, al primo assolo di pianoforte del “professor” Roy Bittan e gli sguardi divertiti, dei miei compagni di concerto – su tutti Stefano Dall’Ara, detto Dollaro -, che ben conoscevano questo mio sogno recondito.

Settant’anni caro Boss e davvero faccio fatica a indicare una rosa di 4-5 brani che risultino particolarmente memorabili.

Perché non posso dimenticare la versione trascinante di Twist and Shout (anche qui un omaggio al passato del rock), American Land, The Rising. E ancora Born to Run e Thunder Road. Ma pure Glory Days (da dedicare al compleanno del Boss, ricordando la sua sceneggiata nel 1985, a San Siro, con il fido Clarence) o Stay, insieme con Jackson Browne.

Adesso, poi, nell’epoca della globalizzazione, i bootleg non sono nemmeno più “dischi” da comprare sotto banco, perché possono essere acquistati direttamente on line seguendo l’organizzazione del Boss. Saltano così fuori “cofanetti” – durata minima tre ore – che ci fanno viaggiare in una sorta di macchina del tempo.

Perché è diverso Springsteen? Per l’energia, per la generosità. E per il coinvolgimento emotivo. Se è un attore (sul palco) Springsteen merita l’oscar per la recitazione. Perché nonostante le rughe e qualche capello bianco, dà sempre l’idea di essere lì, su un palco, a cantare solo per te. Solo che tu (io, voi) sei insieme con altre 70-80mila persone. Ricordo il suo volto, una delle ultime volte a San Siro. La sua uscita: uno dei lati di San Siro che, a comando, si trasforma in una gigantesca bandiera tricolore. “Our love is real”, si leggeva. Semplice, banale, retorico? Forse. Fatto sta che vedere il volto sorpreso e perché no, commosso, del Boss, finiva per dare un’altra robusta stretta al cuore.

Settant’anni lunedì per l’uomo che ha rivoluzionato il modo di vivere i concerti. E che forse ritornerà in Italia in estate. Il mondo si divide tra chi ha visto un concerto di Springsteen e chi no?

Non ho assistito a centinaia di sue performance, ma a una ventina di concerti sì. Sempre straordinari, sempre diversi e da godere fino alla fine.

Happy Birthday, Boss.