La valorizzazione dei giocatori italiani è un principio che ci trova pienamente d’accordo. Per avere una Nazionale italiana sempre più forte – e con una Nazionale forte dovrebbe crescere anche l’interesse – è fondamentale che gli atleti di casa nostra abbiano la possibilità di scendere in campo, per sbagliare, crescere e migliorare. Ci restano, però, almeno due dubbi. Il primo è legato ai criteri che portano alla distinzione operata tra italiani e Afi. Gli Afi sono gli atleti di formazione italiana che abbiano disputato almeno quattro stagioni a livello di settore giovanile. Ma perché considerarli diversi da chi è italiano per passaporto? Ci sono degli atleti, italiani a tutti gli effetti, che hanno giocato o giocano ancora per la Nazionale che per il campionato, o almeno per quello che potrebbe essere il prossimo torneo di baseball di A1, avrebbero lo status di stranieri o quasi. In casa Fortitudo, tanto per restare a Bologna, ci sono almeno due giocatori che hanno giocato (e pure bene) per la Nazionale ma che, nel 2019, non avrebbero la status di Afi, Beau Maggi e Robel Garcia. Da aggiungere, poi, Murilo Gouvea che, da quest’anno, proprio perché ha ottenuto la cittadinanza italiana, è divenuto Murilo Gouvea-Brolo.
La Fortitudo, che lunedì prossimo prenderà parte a una conferenza a Rimini, con Pirati e San Marino, si troverebbe con gli investimenti effettuati un anno fa, praticamente annullati. Vero che il rispetto delle regole è sacrosanto ma, lo scorso anno, quando si aprì ai comunitari – per una libera circolazione (ma questo non dovrebbe valere solo per gli sport professionistici?) degli atleti – si disse che le regole sarebbero rimaste inalterate.
Ora da un po’ di tempo ci troviamo in presenza di un regolamento che cambia di anno in anno. Questo ostacola non solo il lavoro dei singoli club – impossibilitati a programmazioni di lungo respiro –, ma anche la crescita del movimento. Se si cambia ogni anno, è difficile capire se una strada imboccata sia giusta o sbagliata. Occorrerebbe avere il coraggio di provare una strada (ma batterla fino in fondo) per almeno cinque anni: dopodiché tirare le somme e comprendere se la situazione del nostro baseball è migliorata, peggiorata o se è rimasta allo stesso livello.
In fondo, ce lo insegnano anche i club. I club che vincono di più, sono quelli che sono capaci di rimanere se stessi. Partendo da un nucleo, effettuano pochi ma significativi correttivi. Chi cambia spesso, in modo schizofrenico, pur spendendo molto, resta con un pugno di mosche in mano. Chi ha il coraggio di andare avanti, per la propria strada, con un po’ di buon senso e un po’ di fortuna (perché no?), invece, spesso e volentieri vince e convince. Non è un segreto, è solo questione di buon senso e di coraggio. Imboccare una strada, alle volte, significa anche sbagliare. Ma gli errori, di solito, si percepiscono dopo qualche anno. Cambiare ogni anno, paradossalmente, può dare l’idea che si vada avanti alla cieca. E tutti, crediamo, vogliamo il massimo bene possibile al baseball italiano. E diamo il massimo perché questo sport cresca.