“Non mi sentivo molto utile in questo momento”. Alza la bandiera bianca e se ne va anche Roberto Perotti, professore bocconiano chiamato in qualità di consulente del governo Renzi all’improbo compito di tagliare la spesa pubblica del Belpaese. Lascia dopo l’ennesima sconfitta sul fronte della lotta agli sprechi e del contenimento dei costi improduttivi, che si fermerà nel 2016 sotto gli otto miliardi di euro secondo quanto prevede la legge di stabilità al vaglio del parlamento, due miliardi in meno di quanto ipotizzato e da lui auspicato. Così l’elenco degli abbandoni, più o meno spontanei, dalla commissione sulla spending review si arricchisce ancora dopo il clamoroso addio di Carlo Cottarelli, tornato al Fondo monetario internazionale con le sue boicottate (dal governo) slide che programmavano tre anni di virtù risanatrici e ipotizzavano in sette, diciotto, trentaquattro i miliardi di risparmio per le casse dello Stato, miliardi collegati a riorganizzazioni, “efficientamenti”, riduzione dei privilegi.

Prima di lui si era infranto contro il muro della cattiva politica e dei pessimi amministratori l’ex ragioniere dello Stato Mario Canzio e, prima ancora, il triumvirato formato da Enrico Bondi, Francesco Giavazzi e Giuliano Amato: tutti mister forbici di blasone, ma accomunati nel comune fallimento. Aveva promesso di alleggerire il debito e contenere gli sprechi il superministro dell’Economia Giulio Tremonti, preceduto dal libro verde sulla spesa pubblica dello scomparso Tommaso Padoa Schioppa, ministro del governo Prodi.

“La qualità di un’idea si rivela dalla sua capacità di rinascere dai propri insuccessi” scriveva Altiero Spinelli e dunque non resta che sperare nel valore intrinseco della spending review e nell’arrivo di un vero Maradona in grado di mettere nella rete del risanamento, ad esempio, i quattrocento miliardi di patrimonio aggredibile dello Stato, fatti di immobili a rischio di degrado, enti inutili, aziende in perdita, sprechi e privilegi.

Qualcosa è stato fatto, al di là dell’acclamata riduzione delle autoblu, ma la spesa rimane sopra il 51 per cento della ricchezza prodotta dal Paese e vale più di 800 miliardi l’anno: la contrazione più significativa, di cui non andare fieri, è quella in conto capitale legata alla manutenzione e all’ammodernamento delle infrastrutture. La situazione dello Stato italiano rimane paragonabile a quella di una famiglia che guadagna 30 mila euro l’anno, ne spende quasi 31 mila ed ha un debito di 40 mila euro. Ce la farà a sopravvivere? Sì, con molta determinazione, un po’ di fiducia e altrettanta fortuna. Le simulazioni dellOcse, di cui il ministro Padoan è stato capo economista prima di assumere la guida del dicastero dell’Economia, oggi lasciano ben sperare, dopo anni di bacchettate severe all’Italia: “Il deficit pubblico continuerà a diminuire, dal 2,6% di quest’anno all’1,6% del 2017. Il debito, dopo il picco del 2015, scenderà fino al 131,8% nel 2017”. Non sarà proprio una rete alla Diego Armando, ma il ministro comunque applaude.