L’avvertimento più concreto e cinico per la Grecia oggi al voto è arrivato dai banchieri europei: nessuna certezza sull’aiuto finanziario al Paese se non verranno rispettati i patti con la Troika, l’istituzione spauracchio formata da Bce, Unione europea e Fondo monetario internazionale. Molto più esplicito il monito dei tedeschi: niente soldi se Atene rinuncia al programma di sostegno stipulato dal precedente governo.

Quasi dieci milioni di greci vanno dunque alle urne stremati da quattro anni di austerity e da un dilemma: meglio Syriza che vuol cambiare la politica europea o Nea Demokratia dell’ex premier, che teme l’abbandono dell’Egeo al proprio destino da parte della Ue, rendendo inutili tanti anni di drammatici sacrifici? La tensione di queste ore si coniuga soprattutto nella lingua di Platone, nonostante la stessa Europa stia con il fiato sospeso e non tanto per l’entità del debito greco, quanto per i pericoli di contagio e perdita di credibilità.

Il Partenone ha concordato in un piano annuale che proroga fino al 2045 la restituzione di quanto dovuto, cioè 301 miliardi da rifondere in massima parte (circa l’80%) alla Troika. Un importo che non può spaventare la potenza economica delle tre istituzioni sovranazionali ma che le pone in una situazione quantomeno imbarazzante: salvare comunque Atene oppure lasciarla al suo tragico default nel caso in cui il probabile vincitore, l’ingegnere Alexis Tsipras, arrivi davvero a stracciare il patto di restituzione?

Mario Draghi, alla guida dei banchieri centrali, ha parlato poco ma lasciato intendere molto: intanto ha posto un limite molto ravvicinato al finanziamento d’emergenza degli istituti di credito ellenici in grande difficoltà per l’assalto dei correntisti, che temono il blocco dei bancomat (Cipro docet). L’eventuale proroga è legata al confronto con il nuovo premier. Secondo macigno sulla strada greca è l’accesso al quantitative easing, l’inondazione di liquidità voluta da Draghi per tentare il rilancio dell’economia dell’eurogruppo, che verrebbe utilizzata per spegnere l’incendio greco solo nel caso di accordo con la Troika.

Senza una mediazione intelligente, l’alternativa sarà in ogni caso portatrice di guai: se la Grecia rimane nell’eurogruppo ma non rispetta i patti, si aprono le porte al possibile contagio per gli altri paesi ad alto debito. O, almeno, è questo il timore di Bce e Ue, tedeschi in testa. Portogallo, Italia, ma anche Francia e Spagna alle urne nel 2015, potrebbero forzare i limiti della flessibilità, i termini dei trattati e delle riforme.

Quando la mancanza di riforme porta a divergenze durature all’interno dell’unione monetaria, si arriva allo spettro dell’uscita di un Paese e di questo alla fine soffrono tutti i paesi membri” ha ammonito anche ieri il presidente della Bce. Se Atene fosse costretta ad uscire dall’euro, e sarebbe quasi inevitabile il crac, verrebbero innescati contraccolpi sulle Borse, fibrillazioni sugli spread e attacchi agli Stati più esposti, tra i quali l’Italia, da parte della finanza più speculativa: un timore abbastanza contenuto, visto il bazooka messo in campo giovedì scorso dalla Bce. Ma il precedente sarebbe pericoloso per l’impalcatura europea, con recriminazioni destabilizzanti.

Il Fmi ha riconosciuto i propri errori nella gestione del caso greco, ammettendo gli imprevisti effetti collaterali di un’austerity devastante. Gli economisti del Fondo hanno sbagliato i calcoli, i greci hanno perso lavoro, salute, istruzione, risparmi. Stando poi allo studio dell’inglese Jubilee debt campaign, i prestiti della Troika sono finiti nella ristrutturazione del debito privato (34 miliardi), alla ricapitalizzazione delle banche elleniche (48,2), alla stessa Troika per pagare interessi e capitale (149,2 miliardi): famiglie e aziende greche avrebbero incassato poco più di 20 miliardi, meno del 10%. Alla falsificazione dei bilanci pubblici che ha portato la Grecia ad inguaiarsi fin quasi al tracollo, fanno dunque da contrappeso errori, incertezze e ritardi delle istituzioni finanziarie e politiche.