Alessandro Farruggia
Roma, 2 dicembre 2018 – Il mondo si riscalda, le emissioni di gas serra continuano ad aumentare, gli eventi estremi diventano più numerosi ed intensi ma quella che si apre oggi a Katowice – COP24, la ventiquattresima conferenza Onu sul clima – sarà una conferenza tecnica, di trasizione. Oltretutto la COP24 viene ospitata nel cuore della Slesia, il cuore dei bacini carboniferi polacchi, nazione che alimenta le proprie centrali per il 73% con il carbone: la fonte energetica che emette più anidride carbonica, il maggiore gas serra. Una tragica ironia.
“La minaccia posta all’umanità dai cambiamenti climatici non è mai stata così grave e questo deve spingere la comunità internazionale a fare molto di più”. E’ quanto ha detto il Segretario esecutivo della Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici (UNFCCC), Patricia Espinosa, aprendo i lavori della conferenza, ricordando che “quest’anno sarà probabilmente uno dei quattro anni più caldi da quando si effettuano le registrazioni”. Ma la storia degli ultimi 24 anni, racconta che trovare una intesa realmente efficace è estremamente difficile.
L’accordo di Parigi fornisce solo il quadro della nuova governance internazionale sul clima, occorre ora mettere a punto i meccanismi per l’attuazione: il sistema deve infatti essere operativo nel 2020. O meglio, dovrebbe. “I Paesi firmatari – scrive Foreign Affairs – cercheranno di mettere a punto il cosiddetto libro delle regole di Parigi, che disciplinerà le modalità di attuazione dell’accordo del 2015, compresi i requisiti di rendicontazione e contabilità, i meccanismi per promuovere la conformità e il ruolo del Fondo di adattamento, istituito nel 2001 per finanziare progetti di adattamento per lo sviluppo dei paesi firmatari del protocollo di Kyoto. Un altro punto focale della conferenza saranno i finanziamenti. Per raggiungere i loro ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni e di adattamento ai cambiamenti climatici locali, i paesi in via di sviluppo avranno bisogno di finanziamenti consistenti e sostenuti. I negoziatori dei paesi meno sviluppati del mondo si sono incontrati ad Addis Abeba, in Etiopia, in ottobre, e hanno diffuso un comunicato che illustra la duplice sfida senza precedenti che hanno di cercare di eliminare la povertà e coltivare economie a basse emissioni di carbonio e resistenti ai cambiamenti climatici”. “Gli esperti, così come i principali stati in via di sviluppo come India, Brasile, Cina e Sudafrica – prosegue Foreign Affairs – hanno espresso la preoccupazione che i paesi sviluppati non stiano mantenendo la promessa di raccogliere 100 miliardi di dollari all’anno, sia da fonti pubbliche che private, entro il 2020 per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare i cambiamenti climatici. Le nazioni industriali più ricche del mondo hanno erogato circa 55 miliardi di dollari in finanziamenti per il clima nel 2016, con contributi di capitale privato per un totale di 70 miliardi di dollari. Il Green Climate Fund, uno dei principali meccanismi sponsorizzati dall’Onu che finanzia progetti di decarbonizzazione, ha ricevuto impegni per 16,3 miliardi di dollari, di cui 4,6 miliardi di dollari sono stati versati. Inoltre, i negoziati sono bloccati sul tema di un obiettivo finanziario post-2025, al di là dell’impegno annuale di 100 miliardi di dollari che le nazioni sviluppate hanno già preso”.
Il vero punto chiave è la mitigazione (cioè la riduzione delle emissioni di gas serra): gli NDCs (Nationally Determined Contributions) devono essere sviluppati in modo da garantire che i paesi forniscano tutti i dati necessari per valutare l’impatto aggregato degli NDCs sui livelli di emissione. Gli NDCs devono utilizzare una metodologia di contabilizzazione standardizzata che rifletta le migliori conoscenze scientifiche disponibili e che copra tutte le fonti antropogeniche e gli assorbimenti delle emissioni. Gli NDCs devono inoltre garantire la comparabilità degli sforzi tra i paesi. paesi devono basare i loro obiettivi sulle emissioni storiche verificate e non su proiezioni. I paesi devono presentare obiettivi corrispondenti a una percentuale dei livelli di emissione in un anno di riferimento comune, da raggiungere entro lo stesso anno. I paesi devono inoltre adottare un approccio comune per quanto riguarda l’inclusione dell’uso del suolo nella loro metodologia di contabilizzazione delle emissioni. La comparabilità è un aspetto cruciale per evitare e contrastare il parassitismo e gli effetti che potrebbe avere sulle industrie ad alta intensità di carbonio nei paesi più avanzati. Gli approcci cooperativi di cui all’articolo 6 dovrebbero applicare gli stessi standard in termini di trasparenza e devono rispettare pienamente gli obiettivi di sviluppo sostenibile e i diritti umani. Le linee guida devono anche incentivare l’obiettivo di colmare il divario di ambizione identificato dalla “Relazione UNEP sulle emissioni”. A tale riguardo, le modalità della valutazione globale devono preparare una reale valutazione collettiva degli sforzi compiuti e le informazioni tecniche prodotte devono tradursi in impegni e azioni politiche concrete e immediate.Gli NDC devono anche tradurre la responsabilità specifica dei paesi più ricchi in azioni concrete per sostenere i paesi più poveri e più vulnerabili, quelli maggiormente colpiti dall’impatto devastante dei cambiamenti climatici.
Per arrivarci serve molto lavoro negoziale. Ma il problema è a monte. Il problema fondamentale è che gli NDCs, sinora inadeguati, restano impegni volontari: non c’è nessun obbligo. Potranno essere aggiornati nel 2020 e poi ogni cinque anni. Ma sempre su base volontaria. L’accordo di Parigi resta quindi un monumento alle buone intenzioni.
Alla Cop 24 entrerà nel vivo anche il il “Dialogo Facilitativo” previsto dalla decisione adottata a Parigi nel 2015, che è stato ribattezzato “Dialogo di Talanoa”, e ha l’obiettivo rimane quello di fare un bilancio degli sforzi collettivi delle parti in relazione ai progressi verso gli obiettivi di temperatura dell’accordo di Parigi e di informare di conseguenza i paesi in preparazione dei prossimi NDCs. Tutto è complesso e quindi molto lento, mentre il problema dei cambiamenti continua a crescere a velocità ben maggiore. Come ha sottolineato il recente rapporto dell’IPCC, il mondo continua a riscaldarsi a un ritmo allarmante: se le emissioni di gas serra continueranno al ritmo attuale, le temperature globali aumenteranno di 1,5 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali entro il 2040, e poi di 3 gradi entro il 2100. Le attività umane, ricorda IPCC, hanno già causato un riscaldamento globale di quasi 1° (0,87° in un range tra 0.75 e 0.99°) rispetto al periodo pre-industriale (1850-1900). Se questo andamento di crescita della temperatura dovesse continuare ai ritmi attuali, si raggiungerebbe 1.5° intorno al 2040 (range tra il 2030 e il 2052).
Da un punto di vista geofisico, sostiene IPCC, è ancora possibile limitare il riscaldamento a 1.5°, ma questo richiederebbe “una riduzione immediata e progressiva delle emissioni per raggiungere emissioni zero nette di CO2 a livello globale intorno alla metà del secolo, con forte riduzione dei forzanti non-CO2, in particolar modo metano e black carbon”. Le stime del bilancio di carbonio (“carbon budget”) – cioè della quantItà di emissioni che possiamo ancora giocarci prima di raggiungere gli 1.5 gradi di riscaldamento – variano da circa 770 a 570 GtCO rispettivamente (con una probabilità del 50% e 66%). Le emissioni attuali sono di circa 42 GtCO2 all’anno. Le emissioni antropiche passate dal periodo preindustriale alla fine del 2017 sono state di circa 2200 GtCO2.
Gli attuali impegni di riduzione delle emissioni assunti dai paesi nel contesto dell’Accordo di Parigi (Nationally Determined Contributions, NDCs) non sono in linea con l’obiettivo di limitare il riscaldamento a 1.5°C e risulterebbero in 52-58 GtCO2 all’anno nel 2030, circa il doppio rispetto alle indicazioni degli scenari a 1.5°C che prevedono un superamento minimo o nullo del 1.5°C (circa 25-30 GtCO2 nel 2030, corrispondenti ad un 40-50% delle riduzioni delle emissioni rispetto ai livelli del 2010).
Le emissioni di CO2 nette globali prodotte dall’attività umana dovrebbero diminuire di circa il 45% rispetto i livelli del 2010 entro il 2030 – cioè entro soli 12 anni – raggiungendo lo zero intorno al 2050. Da allora ogni emissione rimanente dovrebbe essere bilanciata dalla rimozione di CO2 dall’atmosfera. Ma non sta accadendo.
“Le emissioni globali di gas a effetto serra – è scritto nel rapporto Emission Gap dell’UNEP, reso noto prima della COP24 – non mostrano alcun segno di aver raggiunto un picco. Le emissioni globali di CO2 da energia e l’industria sono aumentate nel 2017, dopo un triennio di stabilizzazione. Le emissioni globali di gas serra, comprese quelle derivanti dal cambiamento di destinazione dei terreni, hanno raggiunto il record di 53,5 Gt di CO2 nel 2017, con un aumento di 0,7 Gt di CO2e rispetto al 2016. Se dal comoputo si esclude il cambio di destinazione del suolo, le emissioni ammontano a 49.2 Gt Co2 (+1.1% rispetto al 2016). A fronte di questo, le emissioni globali di gas serra nel 2030 necessitano di un taglio del 25% e del 55% rispetto ad oggi per limitare il riscaldamento globale a 2°C e 1,5°C rispettivamente”. Siamo completamente fuori da un sentiero virtuoso.
“Gli impegni attuali (espressi negli NDCs) – sottolinea il rapporto – sono insufficienti a colmare il divario in materia di emissioni al 2030. Dal punto di vista tecnico, è ancora possibile colmare il divario e garantire che il riscaldamento globale rimanga ben al di sotto dei 2°C e 1,5°C, ma se le ambizioni di NDC non vengono aumentate prima del 2030, l’obiettivo di 1,5°C non si potrà più raggiungere. Ora più che mai, tutte le nazioni hanno bisogno di un’azione urgente e senza precedenti. La valutazione delle azioni dei paesi del G20 indica che ciò deve ancora accadere: nei fatti, le emissioni di CO2 sono aumentate nel 2017 dopo tre anni di stagnazione. I percorsi che riflettono gli attuali NDC implicano un riscaldamento globale di circa 3°C entro il 2100, con il riscaldamento che proseguirà ulteriormente nel secolo successivo”.
Allo stato, oltretutto con paesi come gli Stati Uniti e il Brasile governati da conclamati negazionisti, stare entro gli 1.5° resta una missione impossibile, e probabilmente anche entro i 2°. Katowice produrrà molte parole, limerà montagne di testi, ma nella sostanza non cambierà nulla in termini di impatto sul cambiamento climatico almeno fino al 2020. E anche dopo, qualora Katovize scrivesse il “rulebook”e l’accordo fosse poi attuato nei tempi previsti non ci sarebbe ancora la risposta che serve perchè l’accordo di Parigi resta allo stato una soluzione parziale e largamente inadeguata a meno di una drastica implementazione degli NDCs da parte di tutti i maggiori player internazionali. Se anche i negoziati a Katowice fossero un successo con la scrittura del “libro delle regole di Parigi”, sarebbe ancora troppo poco, troppo tardi.
© Riproduzione riservata