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L’accordo di Parigi è a un passo. Un accordo finalmente globale, un accordo storico. Ma anche un accordo che si annuncia inadeguato, e che non risolverà il problema. Ma questa è la realtà, gli stati predicano bene ma non sono disposti a sacrifici che reputano eccessivi.  E così si fa di supposta necessità, virtù. Come previsto da molti, le negoziazioni, che dovevano terminare oggi, proseguiranno fino a sabato: il testo finale sarà proposto domattina e posto in votazione attorno metà giornata, e con ogni probabilità approvato.

La svolta verso una intesa, propiziata da contatti ad altissimo livello tra Usa, Europa e Cina, c’è stata ieri. Erano le 21 di ieri quando il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius ha annunciato: “Un nuovo testo è pronto. Siamo estremamente vicini alla linea dell’arrivo”. Per ore Fabius aveva rinviato la presentazione della bozza. Le tre del pomeriggio. Le sette del pomeriggio. Poi le nove della sera. La presidenza francese si è mossa tra veti incrociati, ma con abilità, usando il metodo dell’indaba. Alla fine ne è uscito un testo leggermente più lungo di quello originale ma che limita grandemente i punti di non accordo.

La bozza fissa nell’articolo 2 l’obiettivo di lungo periodo di “contenere il riscaldamento bene al di sotto dei due gradi rispetto all’epoca preindustriale” e di  “effettuare ogni sforzo per contenerlo entro 1.5 gradi”, un obiettivo che verrà perseguito con responsabilità “comuni ma differenziate”. Su come avverrà questa differenziazione ancora non c’è accordo. Va deto che tutto sommato aver posto l’obietivo dei due gradi, è un risultato positivo, e soprattutto realistico. Ma le ambizioni si misurano anche sul picco delle emissioni. L’articolo 3 dice che le parti dovranno raggiungerlo “il prima possibile”, e “il raggiungimento del picco richiederà più tempo per i paesi in via di sviluppo”. Sparisce una data precisa e una cifra precisa (nella bozza precedente c’erano due opzioni di taglio: del 40-70% o del 70-95% entrambe al 2050) e il riferimento alla “emissions neutrality”, cioè alle emissioni zero, è ora a “la metà del secolo”, che può voler dire 2051 o anche 2099. E questo va già meno bene. La verità è che non avendo trovato un accordo su una formulazione ambiziosa si è usato un linguaggio generico.

I paesi che hanno presentato i propri impegni volontari dovranno comunque poi rivederli ogni cinque anni dall’entrata in vigore dell’accordo, quindi dal 2025 e gli impegni non potranno essere inferiori o uguali ai precedenti. Ancora non c’è accordo sulla trasparenza del meccanismo, per la quale sono previste diverse opzioni, tra le quali occorrerà scegliere oggi. E ancora mancano aviazione e trasporto merci, che pesano per il 5% delle emissioni e l’Ue voleva inserire.Non c’è acordo sull’articolo 2 bis, quello che indica come preparare e comunicare gli imegni nazionali di sconribuzione, che comnque all’articolo 3 si dice che dovranno essere progressivamente più stringenti. All’articolo 3 bis si dice chiaramente che gli stati dovranno conservare e aumentare i “sink” (pozzi, cioè assorbitori) di carbonio, in altre parole le loro foreste.
La prima revisione vera e propria degli impegni è prevista _ articolo 10 _ per il 2023, e poi a scadenza di 5 anni. Anche questo è un punto debole, perché significa che per altri 8 anni non ci saranno altri impegni di mitigazone, se non su base volontaria. L’intesa prevede anche un secondo documento _ la cosiddetta “decisione” _ che viene inserito nella Convenzione sui Cambiamenti Climatici, e che fissa al 2020 la scelta dei paesi “se confermare o aumentare” gli impegni sinora presi (e che sono largamente insufficienti) e fissa per il 2019 un primo “dialogo” sugli impegni stessi. Nel frattempo nel 2018 l’Ipcc dovrà fare documento tecnico sui tagli alle emissioni che saranno necessari per centrare l’obiettivo.

Sulla finanza viene confermato nell’articolo 6 l’impegno dei 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020 “come base di partenza”, anche se su questo punto rimangono molte parentesi quadre, che segnano i punti di non accordo. Ancora da decidere la parte relative ai danni da cambiamenti climatici, los and damage, per la quale i paesi più esposti chiedono una compensazione. E qui si torna al punto: i soldi. Ci saranno? Saranno veri o semplici promesse? e chi controllerà sul loro utilizzo? Anche su questo si lavorerà in quete ore, verso  l’intesa finale.