Carissimo Cesare De Carlo,
ti scrivo dalla lontana ‘bassa romagnola’, precisamente da Conselice (comunità di 5 mila anime di origini contadine e bracciantili, chiamata a vivere nel corso dei millenni in questo lembo dimenticato e piatto della pianura che dall’imolese scende verso il ferrarese). Sono nato da queste parti nel 1935 e per circostanze strane sono diventato un collaboratore della Redazione di Ravenna del ‘Carlino’.

Mi è piaciuta molto la tua pagina sul ‘Carlino’ di oggi e dedicata al mondo dei Navajo; un mondo che fortunatamente e miracolosamente ancora sopravvive nell’Arizona. Appartengo alla generazione che nei film western veniva educata a parteggiare per i bianchi, impegnati a sterminare i ‘cattivi’ pellirosse. Ma diventando adulto ho compreso che in quel contesto storico-ambientale erano forse molto più ‘cattivi’ i bianchi e da allora ho iniziato a trepidare affinchè i pellirosse, sopravissuti allo sterminio, potessero ritornare a vivere liberi e possibilmente indipendenti nelle terre da cui i ‘bianchi’ hanno cercato di cacciarli. E il tuo bel servizio da Window Rock sui Navajo (che al contrario dei ‘bianchi’ hanno capito l’importanza del rapporto rispettoso dell’uomo verso la natura) mi ha ricordato come anche dalle nostre parti, nel cancellare per sempre il mondo della civiltà contadina) abbiamo anche noi confermato l’ottusità nel non voler comprendere che elevando a divinità il mondo tecnologico (e violentando e penalizzando l’ambiente naturale in cui siamo stati chiamati a vivere) ci comportiamo come chi sta seduto sul ramo di un albero, mentre lo sta segando.

Grazie ancora quindi per avermi trasportato sentimentalmente e mentalmente ancora una volta nel mondo dei Navajo e della stupenda Monument Valley, con il suo Gran Canyon , deserti, rocce e il leggendario fiume Colorado, dove anche noi da bambini abbiamo potuto vivere tante avventure ( anche se solo sul grande schermo bianco) e apprezzare la bellezza e grandezza di quella meraviglia che è nostra ‘Madre Natura’. Un caloroso saluto, unitamente all’augurio di un buon proseguimento nel tuo lavoro e nella tua vita. Renzo

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Dott. De Carlo,
leggo sempre con interesse i suoi articoli su QN Il Giorno ed ho visto anche
il suo ultimo su Geronimo e gli Apache, dopo quelli riguardanti i Navajo.
Come lei saprà, sono uno scrittore e storico del West, con all’attivo diverse
pubblicazioni (6 romanzi narrativa e 15 di saggistica). Mi sono occupato in
maniera specifica di Geronimo e dei capi Apache in almeno 2 libri: “I cavalieri
del West” (scritto insieme al giornalista Andrea Bosco, Le Mani editore, 2011)
e “Frontiere del West” (Parallelo 45, 2013) e non posso ovviamente condividere
la tesi degli Indiani sul patriottismo della loro gente, invasa e colonizzata
dai Bianchi.

Nella realtà, tanto i Navajo che gli Apache – appartenenti al
medesimo ceppo etnico linguistico e originari del Canada settentrionale, erano
popoli di predoni, perennemente in guerra con altre tribù confinanti (Pueblo,
Pima, Papago, Yaqui) e più lontane (Comanche, Kiowa). I primi si diedero una
calmata dopo che lo spagnolo Onate da Zacatecas introdusse greggi di pecore e
capre nei loro territori, mentre gli Apache conservarono il loro costume di
incursori praticamente fino alla loro sottomissione. La deportazione della
banda di Geronimo nella lontana Florida fu una brillante idea del generale
Nelson Miles per evitare che venissero processati in massa dai tribunali civili
dell’Arizona per le loro razzie (e la loro crudeltà senza limiti) mentre gli
abitanti del territorio stavano già confezionando decine di cappi di canapa per
appenderveli.

Però sia Geronimo che esploratori come Tom Horn (poi impiccato
nel Wyoming per un dubbio omicidio nel 1903) non lo compresero, accusando Miles
di avere violato i patti. Qualche anno dopo però, sorprendentemente Geronimo
dichiarò al proprio biografo S.M.Barrett che gli Americani erano “gente gentile
e pacifica”, mentre dei Messicani non poteva dire altrettanto. Leggo spesso del
“genocidio” di cui sarebbero state vittime le popolazioni dalla pelle rossa: le
mie ricerche di tutti questi anni dimostrano invece che il numero delle vittime
causate dalle guerre intertribali è superiore a quello delle perdite subite dai
Pellirosse nelle campagne contro i Bianchi. Comunque, gli Apache vennero
stimati in 6.000 persone dal governo federale americano nel 1848 e nel 1886,
dopo la loro resa definitiva, ammontavano a circa 12.000, compresi coloro che
avevano seguito Geronimo nell’Oklahoma. In ogni caso, nè Geronimo, nè Toro
Seduto o Cavallo Pazzo possono essere considerati dei grandi leader politici
della loro razza. Semmai, sarebbe opportuna restituire maggiore spazio a coloro
che lo meritavano veramente, quale per esempio Tecumseh, del quale ho parlato
diffusamente in un’intervista concessa l’anno scorso a “Il Giornale di Brescia”
(che le allego) nella ricorrenza del bicentenario della morte.

Visto che lei è senz’altro un grande appassionato di storia western, sarei
davvero lieto di poter esternare le mie opinioni sulla materia, magari
sentendoci per un’intervista. Le allego il mio curriculum letterario.
La mia mail è solitamente questa: [email protected]. Il telefono è 339
6055520.
Al piacere di risentirla.

Domenico Rizzi

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Dott. De Carlo,
ho letto con piacere il suo nuovo articolo sui Comanche, anche se le debbo
correggere alcune cifre. La tribù dei Comanche, di ceppo uto-azteco, non
raggiunse probabilmente mai la consistenza demografica da lei indicata: nel
1690 erano in tutto 7.000 e nei numerosi rapporti dell’autorità spagnola che
governava Texas e Nuovo Messico, viene variamente indicata da 6.000 a 7.000.
Nel 1836 un agente indiano degli Osage scrisse che i Comanche era di 8.000
individui, come calcolato anche dal governo del Messico, mentre un decennio
dopo Charles Bent ne valutò 12.000.

E’ esatto quanto scrive, che alla fine dell’Ottocento la tribù fosse ridotta a
pochi elementi: infatti contava appena 1.400 persone. Le cause? La lunghissima
conflittualità sostenuta contro le tribù nemiche (Sioux, Cheyenne, Arapaho,
Pawnee, Navajo, Apache, Tonkawa e fino al la fine del Settecento anche con i
Kiowa) i Messicani (i Comanche si spingevano frequentemente nel cuore del
Messico per compiere razzie) e assai più marginalmente con gli Americani,
soprattutto reparti di Rangers del Texas. Le ragioni principale del loro
decremento demografico furono comunque le epidemie di vaiolo, oltre alle
continue guerre con le tribù rivali.

Anche sui bisonti circolano informazioni errate. Una stima effettuata nel
1860, riteneva fossero ancora più di 10 milioni, anche se nelle regioni sud-
occidentali le mandrie si erano impoverite rispetto a quelle settentrionali.
Peraltro, il rapporto di causa-effetto fra distruzione dei bisonti da parte dei
Bianchi e atti di ostilità compiute dalle tribù è abbastanza debole. Quasi
certamente si tratta di un’esagerazione del cinema western, perchè per molti
decenni i Pellirosse fornirono ai cacciatori migliaia di pellicce pregiate,
incuranti del rapido declino della loro fauna, che costituiva la principale
fonte di sopravvivenza. E’ un fatto storico che, prima dell’introduzione del
cavallo nel West, usassero sospingere le mandrie nei burroni, uccidendone ogni
volta centinaia per appropriarsi di qualche decina di capi.

Un trapper racccontò una volta di essere riuscito ad attraversare un canyon camminando
sulle carcasse dei bufali ammucchiati nel crepaccio, che erano migliaia.
I Comanche assalivano gli insediamenti americani, così come quelli messicani
ed i villaggi delle tribù nemiche, perchè erano predoni da sempre, come gli
Apache e quasi tutti gli altri popoli delle pianure.

Infine, la questione delle donne bianche rapite, che io ho trattato
diffusamente nel mio libro “Le schiave della Frontiera”, è una pagina che molti
storici filo-indiani preferiscono evitare, ma non lascia alcun dubbio di
interpretazione. Le donne bianche rapite a carovane e fattorie venivano
ripetutamente violentate da molti guerrieri, prese poi in moglie da uno di loro
e spesso cedute ad altre persone. Il caso di Cynthia Parker è identico: il suo
desiderio di tornare alla tribù dopo essere stata recuperata alla vita civile,
venne spiegato da lei stessa: “Sto piangendo giorno e notte per i miei figli
(3) che ho lasciato con la tribù”.

Uno di questi era appunto Tseeta (Aquila)
chiamato anche Quanah Parker, capo di guerra dei Kwahadi, che si spegnerà nel
1911 dopo avere deposto le armi nel 1875. Un interessante documento sulla vita
di un Bianco fra i Comanche è la biografia di Herman Lehmann, un bambino
tedesco rapito dagli Apache nel Texas e passato successivamente a vivere con i
Comanche. Scrisse “Nine Years among the Indians” e morì nel 1932. A lui mi sono
ispirato per il mio racconto “Indiano Bianco”, contenuto nella raccolta
“Pianure lontane” (Filios Editore, Piacenza, 2009).
Con cordialità.
Domenico Rizzi

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Ho letto sul carlino del19 u.s. il suo racconto su fort apche,molto bello ,purtroppo ho perso la prima puntata. A quanto le prossime?
Cordiali saluti
Adriano Morini

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Gent. Sig. De Carlo ,
scrivo queste poche note per complimentarmi per il bell’articolo da Lei scritto sui Navajo, articolo che in alcune parti aveva riflessi poetici.
Le scrivo perché cultore delle minoranze linguistiche ed etniche .
Negli ultimi tempi con altre persone sto organizzando una donazione di vecchi ed interessanti utensili domestici di varie aree culturali ( dal Pakistan all’India, dall’Africa alla Cina) da consegnare al MEA – Museo Etnico Arbresh di Civita- Cs al fine di creare uno spazio di dialogo fra culture altre in uno spazio offerto dall’ Ente Parco del Pollino; a questo proposito Le chiedo si ha informazioni riguardanti utensili dei popoli nativi americani ed in particolare come poter acquisirli per poterli a nostra volta aggiungere alla donazione.
Questo è quanto.
La saluto e la ringrazio anticipatamente per le informazioni che potrà fornire.
Distinti saluti,

Giuseppe Chimisso
V. del Mastelletta, 6
40128 Bologna
Cell. 349. 77 86 592
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Egr Cesare De Carlo

Grazie per la storia e gli aneddoti sui ns amici NAVAJO riportati sul Il Giorno.

Cordialità

Marco Maffioli appassionato e affezionato.

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Quanti appassionati e affezionati! Quanti cultori della tormentata vicenda degli indiani d’America, pardon dei Native-Americans!
E quanti sono gli scrittori affermati, come Domenico Rizzi, le cui pubblicazioni sull’argomento sono parecchie dozzine!

Mi fa piacere avere rispolverato questa storia. Storia ormai conosciuta ma non sufficientemente apprezzata.

Quel che ho notato nei miei numerosi viaggi fra le riserve indiane, soprattutto nel mitico Southwest, e cioè Arizona, Utah, Colorado, New Mexico, insomma i famosi Fourcorners States, è che tutto quanto avevo letto sui libri e tutto quanto avevo visto al cinema era solo la pallida e largamente incompleta proiezione di quanto era avvenuto davvero.
Bene, la serie continuerà.