L'attuale composizione del Senato (agosto 2015)

L’attuale composizione del Senato (agosto 2015)

«SIAMO pronti a fare modifiche» fa capire Renzi in un’intervista al Corsera di domenica scorsa sulla riforma del Senato. La minoranza dem esulta, ma stavolta rischia l’abbaglio. Le modifiche, spiegano subito dall’inner circle del premier, riguardano «le funzioni e le competenze del nuovo Senato» (politiche pubbliche, rapporti Stato-Regioni) da un lato e, dall’altro, «i quorum le modalità di elezione degli organi di garanzia delle Camere future» (Consulta, Csm, Capo dello Stato). Morale: si può cambiare tutto, o quasi, «tranne» ciò che la minoranza chiede da mesi in modo martellante: l’elettività diretta dei futuri senatori (art. 2 del ddl Boschi). Quella non si tocca perché – spiega un renziano di rango esperto del ramo – «solo se cambi le parti già modificate una volta da una delle due Camere nella prima lettura, poi puoi fare una nuova, rapida, navetta, ma se torni indietro sugli articoli già votati in un testo identico da entrambe le Camere (come è, appunto, in merito al famoso art. 2 e alla preposizione-cavillo ‘dai’-nei’, ndr.) è come far ripartire tutta la riforma da capo, rimandandola alle calende greche. Come se la maggioranza non avesse fatto niente, finora, e questo, davvero, non si può fare perché siamo di fronte al Paese e all’Europa».

NON A caso Renzi dice: «Se vogliamo fare forzature sul testo uscito dalla Camera, i numeri ci sono» anche perché ora – aggiunge il premier – ci sono «numeri in più», a sostegno delle riforme, dei verdiniani del gruppo Ala, euforici del pubblico riconoscimento.
Ergo, per il premier e i renziani, l’elettività dei futuri senatori, da scegliere per la maggior parte dentro i consigli regionali (74) e, in parte minore (21), tra i sindaci, con modalità elettiva di «secondo grado», cioè non direttamente da parte del corpo elettorale, non si tocca. Alla faccia di chi, nella minoranza (25 senatori, tutti agguerriti), ha invece inteso le parole di Renzi come un’apertura, sull’elettività, dunque, non se ne farà nulla, se non appunto, su temi «minori» (politiche pubbliche, materie comuni, specie quelle etiche, quorum e modalità di elezione degli organi costituzionali). Quisquillie che non farebbero ripartire la riforma da zero, anche se farebbero slittare comunque di alcuni mesi i tempi. Infatti, anche se pochi lo dicono, e ancor meno lo sanno, l’attuale passaggio del Senato, che allo stato è il secondo, sta ancora dentro la “Prima lettura” delle due Camere: finché il testo non è identico, infatti, la navetta tra i due rami del Parlamento continua come per una legge ordinaria. Ergo, solo se il Senato licenziasse un testo identico a quello della Camera (ipotesi, allo stato, implausibile) si entrerebbe a ottobre nella seconda lettura dopo il secondo passaggio alla Camera, il che vorrebbe dire che la terza e quarta lettura arriverebbero per gennaio 2016 e il referendum potrebbe essere tenuto entro luglio 2016. Se, invece, come è molto probabile, il Senato cambierà delle parti del testo del ddl Boschi (minori o maggiori, politicamente rilevanti o meno non importa), la Camera dovrà rivotarli, il testo tornerà al Senato, a questo punto entro dicembre, e solo lì si chiuderebbe la II lettura con la II e la IV prevedibili per marzo 2015 e il referendum istituzionale che, a causa dei tempi tecnici per indirlo (sei mesi), scavallerebbe l’estate e si terrebbe a ottobre 2016.

Non che la minoranza dem, le opposizioni (FI, Lega, M5S, Sel, ex-grillini) e pezzi di maggioranza (Gal, Idv e gli inquieti senatori Ncd, sempre più inquieti) non abbiano frecce al loro arco a fronteggiare l’offensiva di Renzi che intende andare avanti “come un treno”.
Due, in particolare possono colpire e far male. La prima è di lana caprina, sta sempre in capo all’art. 2 e verte sulla differenza tra la preposizione «nei>, presente nel testo originario, che era diventata «dai» consigli regionali in cui i 21 sindaci (e solo loro, si badi bene) verranno eletti tra i futuri 100 senatori (gli altri senatori saranno eletti dai consigli regionali e 5 saranno senatori a vita o ex Capi di Stato). Insomma, la preposizione cambiata per prima cosa non c’entra nulla con la questione dell’elettività diretta dei senatori nei consigli regionali (direttamente dai consigli regionali nel testo originario, su un listino a parte indicato dai partiti ma scelto dagli elettori quando votano i consigli regionali nel caso passi la mediazione che i renziani hanno, per ora inutilmente, proposto alla minoranza) ma con la modalità di elezione dei sindaci (‘nei’ o ‘dai’ consigli regionali) e, come seconda cosa, si porta con sé il problema della sfasatura o  non coincidenza tra il mandato dei sindaci e quello dei consigli regionali. Resta il punto: si tratta di un sofisma-grimaldello (se il testo è difforme, esso va rivotato, la tesi dei sostenitori della minoranza) utile a riaprire la discussione al Senato, allungando di molto i tempi della riforma.

Cosa che si può fare a colpi di emendamenti (sono 17 quelli della minoranza, non 513 mila come quelli di Calderoli, e peraltro ben scritti, anche se, pare, con la ‘manina’ dell’aiuto dei tecnici del Senato…) e dunque della più classica delle armi: l’ostruzionismo parlamentare. Oppure, appunto, con emendamenti killer che mettano in discussione il cuore della riforma (la non elettività dei futuri senatori, le loro non indennità e il privar loro di molti poteri) per riuscire, però, nello stesso, unico, intento: mettere in difficoltà o mandar sotto il governo. La questione, dunque, pur se di lana caprina, è dirimente. Da un punto di vista preliminare, sulla possibilità di ammettere o meno emendamenti all’art. 2 si sono già pronunciati due personalità importanti: l’ex capo dello Stato Napolitano la presidente della I commissione Affari costituzionali, Finocchiaro l’hanno esclusa in modo categorico, dichiarandola inammissibile a scapito dell’intero processo riformatore. L’ultima parola, però spetta al presidente del Senato Pietro Grasso. Il quale fa sapere di essere di fatto favorevole a riaprire la querelle (cioè l’ammissibilità degli emendamenti all’art. 2 del ddl Boschi) e, di fatto, a voler dare una bella mano alle opposizioni e alla minoranza dem contro il governo, come ieri notava Repubblica – ma, per non rompere definitivamente con Renzi, che lo imputa di essere ostile alla riforma insieme ai suoi più alti funzionari, potrebbe rimandare la discussione alla Giunta per il Regolamento, dove però la maggioranza ha numeri risicati, lavandosene le mani.

LA SECONDA freccia della minoranza dem e delle opposizioni più dure è nei voti (175) che sorreggono le firme agli emendamenti pro-Senato elettivo: se fossero tali, il governo, di fatto, non avrebbe più la maggioranza. Vero che, in questa I lettura, al ddl Boschi «non» serve la maggioranza assoluta dei voti dell’Aula (161), ma solo la maggioranza semplice (basta un voto in più) e che, coi verdiniani, la maggioranza di governo è, sulla carta, di ben 183 voti (ma solo compresi i 25 dissidenti dem, altrimenti scenderebbe pericolosamente sotto i 160 voti…), persino un’instancabile «stabilizzatore» della maggioranza, il senatore Paolo Naccarato (Gal), spera che «Renzi, di fronte al portato storico della riforma a portata di mano si convinca a non perdersi in questioni di contorno o di puntiglio».
Il guaio è che quello che per il senatore Naccarato è «un puntiglio», l’elettività o meno dei futuri senatori, per Renzi è un punto d’onore. Su quello non intende cedere, ma andare avanti, fino in fondo. A costo di arrivare allo scontro finale: finire «sotto» al Senato e chiedere a Mattarella le urne anticipate, l’arma fine di mondo. Non a caso, il Capo dello Stato è preoccupato e fa sapere: l’Italia deve fare le riforme, non ha bisogno di scossoni.

NB: Questo articolo è stato pubblicato – in forma più succinta –  lunedì 31 agosto 2015 a pagina 9 del Quotidiano Nazionale