In un’epoca molto lontana, su per giù nei primi anni Settanta, per capire se un giovane poteva aspirare a diventare un calciatore vero ciò che contava erano i numeri. Altezza media, bacino possibilmente basso, ma soprattutto a sorreggere il tutto doveva esserci un autentico piedino. Ideale un 39/40, già il 42 ti relegava a ruoli difensivi, oltre non se ne parlava nemmeno. Allora i campioni, dal numero 6 in su,  colpivano la palla di collo pieno. La sfera di cuoio doveva schizzare via dal terreno con traiettorie nitide e dirette come quelle tracciate da un proiettile. Onestamente, va detto, un vero spettacolo vedere crossare dal fondo una palla che sembrava congelata avanzare senza alcuna rotazione fino a giungere nel cuore dell’area dove gli attaccanti non dovevano far altro che colpire in modo altrettanto nitido e pulito per insaccare nella rete avversaria. Ma gli anni Sessanta/Settanta hanno cambiato il mondo e anche per il pallone stava per arrivare una squadra che avrebbe stravolto ogni regola, anche tecnica, nello stesso modo in cui Beatles e Rolling Stones avevano rivoluzionato la musica pop.

Io non avevo piedi buoni. Nella mia città e nelle giovanili del Bologna, il modello tecnico al quale ispirarsi nel colpire la palla era rappresentato da un giocatore che aveva anche vestito la maglia azzurra e che si chiama Marino Perani. All’epoca in allenamento si usavano le Superga blu, che poi sarebbero diventate di moda per andare a passeggio, utilizzate proprio per le sedute nelle quali ci si dedicava principalmente alla preparazione atletica e alla tecnica. Perché lo dico? Perché con quella scarpa, così morbida e avvolgente, la palla poteva essere addomesticata se uno era dotato di piedi “dolci”. Più che il fisico (e la stabilità) ciò che contava, all’epoca, era il tocco. Provate a utilizzare oggi le “eleganti” Superga su un campo da calcetto e vi renderete conto di quanto sia difficile restare in piedi. Il suddetto numero 7, ovvero Perani, lasciava partire traversoni che sembravano cristallizzarsi nello spazio, la palla non sembrava nemmeno muoversi e quando giungeva finalemente a terra era talmente facile da addomesticare che sembrava fosse lo stesso Perani ad aver previsto si fermasse là dove lui aveva deciso… Lo stesso facevano tutti i grandi giocatori, compresi Rivera e Mazzola… Mi permetto di dire che l’inarrivabile Bulgarelli si serviva anche di un mirabile piattone per tracciare geometrie rasoterra che risultavano illuminanti e micidiali. Forse il giocatore che avrebbe potuto giocare anche nella squadra che stava per rivoluzionare il mondo del pallone: l’Olanda del numero 14 Johan Cruijff.

Per chi come me non poteva colpire di collo pieno se non arando il terreno, vedere che una squadra e un supercampione facevano della fisicità la loro arma vincente era vendicarsi di anni di frustrazioni e di umiliazioni. La maglia numero 10 (non esageriamo… la numero 8) non era più preclusa a chi calzava un 42, purché si corresse e si fosse dotati di una tecnica alternativa. Infatti, sia ben chiaro, non è che gli orange non fossero in grado di far quel che volevano con il pallone, ma crearono una nuova grammatica per cui non è affatto detto che i piedi dolci siano indispensabili per diventare campioni. Non a caso anche in questi mondiali le uniche squadre che oggi arrivano a tentare di fermare i giocolieri sudamericani sono Germania e Olanda, ovvero squadre che fanno della fisicità e di una diversa tecnica la loro arma vincente. L’Olanda di Cruijff era anche spettacolo puro, ma questo era dovuto al fatto che il loro modulo a zona aveva di fatto colto di sorpresa gran parte delle nazionali dell’epoca, e il pressing asfissiante di quella squadra spesso costringeva gli avversari a recitare il ruolo delle comparse.

Insomma, concludendo, l’Olanda mi ha salvato la vita (calcistica, intendo), anche se prima di venire digerita in Italia ci sono voluti molti anni. Unico appunto che molti continuano a fare: l’Olanda non ha mai vinto nulla. Vero, verissimo. Neanche i giovani che manifestavano in piazza negli anni Settanta sono andati al potere, ma di certo hanno cambiato il mondo. E chissà che questa volta in Brasile non sia la volta buona. Sperarlo, per chi ha creduto che il mondo potesse cambiare sul serio, non costa nulla e vincere, alla fin fine, è solo un particolare, spesso determinato da fattori che non c’entrano nulla con i valori in campo. Ciò che conta non sono soltanto i numeri, meglio ancora non sono necessariamente quelli che ti vogliono far credere siano quelli giusti. È il fascino dell’eterno secondo, del perdente che meriterebbe di vincere, ma non riesce non per demerito, ma perché non può riuscirci… Quindi, forza Olanda. Comunque vada sarà un successo.