Lo sguardo rivolto verso un altrove indefinito, i tessuti dal disegno geometrico ad incorniciare il volto che da semplice ritratto si trasforma in figura complessa e armoniosa quindi in opera d’arte. È l’ultima foto di Tamara de Lempicka che anche in questo scatto non si smentisce e riafferma quanto sempre sostenuto nel corso di ottanta, intensissimi anni, vissuti senza risparmiarsi: <Io sono la mia opera e la mia opera sono io>. Persona e personaggio si confondono sin dai controversi natali che le biografie ufficiali collocano in quel di Varsavia nel 1898, trascurando i primi anni vissuti a Mosca. Di certo attraversa il secolo come la protagonista di una o più sceneggiature, da diva del muto fino al viale del tramonto vissuto sempre come se un obiettivo la inquadrasse. Attrice e regista, le pellicole dell’epoca ce la mostrano seduta al tavolino di un caffè in piazza San Marco a Venezia o mentre dipinge muovendosi davanti alla tela con la gestualità ritmica di un film espressionista. A Palazzo Chiablese a Torino va in scena la mostra a lei dedicata, un magnifico contenitore che si trasforma nell’avventuroso racconto della vita dell’artista accompagnando il visitatore/spettatore attraverso le opere, ma anche le immagini, siano foto o filmati, della sua incredibile esperienza.

Attraverso i suoi occhi di donna, evoluta e trasgressiva, forte di una nobiltà e di una ricchezza che le consentì di vivere sempre da protagonista, ha attraversato il Novecento, passando attraverso la rivoluzione russa, gli anni ruggenti della Parigi di Francis Scott Fitzgerald, i tempi bui delle due guerre fino ad assaporare gli anni Cinquanta e i successivi da riconosciuta icona al pari delle seducenti, voluttuose donne ritratte nei suoi dipinti. Gioia Mori, curatrice dell’esposizione torinese, appassionata studiosa di Tamara, la racconta partendo dalle case dove ha vissuto e dai viaggi che l’hanno portata da Mosca a Los Angeles, passando per Parigi, New York, Milano, Firenze, Venezia e Roma. L’Italia la travolge. Qui trae ispirazione da Antonello da Messina, ma vive anche una controversa relazione con Gabriele D’Annunzio e poi a Parigi con Tommaso Marinetti. Il Vate vuole sedurla, lei sta al gioco ma in realtà vorrebbe solo ritrarlo: troppo innamorati di loro stessi falliranno entrambi e rinunceranno all’obbiettivo. A Parigi, invece, insieme con Marinetti vorrebbe bruciare il Louvre, in nome della modernità predicata e inseguita. Va in fumo il progetto criminale e non il museo, ma del futurismo resterà una forte traccia nelle sue tele dove il decò si fonde con le tinte e con il segno che tanto ricordano quello di Umberto Boccioni.
Negli occhi che non guardano delle splendide, statuarie donne ritratte, in tanta austera ed elegante supponenza, sta l’essenza della vita di Tamara. Una donna che seppe amare solo se stessa, vivendo il proprio misticismo trasformandosi lei stessa in madonna, incapace di uscire dal personaggio. Si commuove davanti alla suora di Parma in cui vede incarnarsi il dolore del mondo, ma nel ritratto che ci restituisce la Vierge bleue è ancora lei, sempre e solo lei, la vera protagonista. Ritrae la figlia Kizette, ma non si avverte amore materno in quei dipinti, solo compiacimento della propria capacità di dare forma pittorica alle proprie idee. In Tamara si riassume l’essenza dell’artista che va oltre le convenzioni, capace di cogliere l’essenza senza venire a contatto con il mondo terreno. Divinità assoluta, rappresentazione di un secolo dove ad alcuni era concesso di vivere senza nemmeno essere sfiorati dalla bruttezza e dagli orrori quotidiani. I suoi occhi e quello delle figure ritratte nelle tele lo rivelano: donne e uomini, vestiti alla moda del tempo oppure nudi e statuari, appartengono a un mondo divino dove la bellezza regna sovrana e indisturbata.