MUORE innamorato del calcio e del suo Napoli, Ciro. Muore a 31 anni mentre si consuma la veloce disfatta di questi piccoli azzurri. Ed è vero e dobbiamo ripetercelo che le coincidenze sono figlie del caso, anche quando paiono il copione di un regista sconosciuto. Fatto sta che gli occhi giovani di Ciro Esposito, vittima del calcio più brutto, quello che si gioca fuori dal campo, si chiudono su un pallone malato. Agonizzante. È il calcio di capitani che buttano i giovani marinai giù dalla nave: «Potevi fare di più». Di ragazzi col fisico da semidei e dalle scarpe fluo, che se tirassero in porta come ‘cinquettano’ saremmo a posto. Guerrieri impauriti che fanno rimpiangere i vecchi campioni (anche di umiltà). È stato, questo che abbiamo visto in Brasile, il calcio di un tecnico che piega la spalle e si assume tutta la responsabilità di un progetto fallito — chi altri doveva farlo? — ma che poi scivola sulla tentazione tutta italiana di trovare un alibi: «Dal rinnovo del contratto attacchi continui».

UNA BRUTTA Italia, questa del pallone, che deve ritrovare la strada non solo per imparare di nuovo a vincere — che illusione, gli Europei, siamo tornati l’Italia del Sudafrica — ma anche per rinascere. A cominciare dal campionato e dalla piaga del tifo violento, ignorante, dal teatro domenicale degli ultras pronti a trasformare uno dei giochi più belli del mondo in una stupida guerra di bandiere e idee povere. Guardiamo al modello inglese, ma resta un miraggio. Il tutto dentro impianti vecchi e scomodi. Calcio brutto e calcio sporco. Quello delle scommesse, delle partite pilotate che è come soffocare l’anima del pallone. Questo calcio così lontano, dove gli stipendi seguono l’andamento di un mercato dorato e irreale, così estraneo alle famiglie degli italiani che mentre sognano i gol di Balotelli e Immobile tirano la cinghia per arrivare a fine mese. O piangono un figlio morto. Un figlio che amava il calcio. «La morte di Ciro Esposito è l’unica vero tragedia — dice il presidente del Coni, Giovanni Malagò — . Certamente il calcio è all’anno zero». Ma dopo lo zero c’è l’uno, e piano piano si risale. Magari ripartendo dai vivai fino a donare alle famiglie il piacere di guardare, ancora, una bella Nazionale. E il piacere di farlo assieme ai propri figli.