E Luigi Di Maio? E’ contrario. L’espulsione dal Movimento 5 stelle del sindaco di Parma Federico Pizzarotti è solo l’ultimo esempio: andando a ritroso nel tempo, non c’è stato snodo politico in cui i grillini abbiano dovuto scegliere tra buonsenso e ideologia che non abbia visto Luigi Di Maio schierarsi dalla parte del buonsenso e perciò dissentire dai diktat di Casaleggio, prima il padre e ora il figlio. Di solito, il vicepresidente della Camera dissente non perché le decisioni vengono prese in maniera autoritaria rinnegando il sacro principio in base al quale “uno vale uno” e tutto dovrebbe essere stabilito attraverso il Web da elettori e militanti. No, Luigi Di Maio dissente per ragioni politiche. Ragioni di opportunità politica. Ma questo suo dissentire risulta solo dai retroscena dei giornali. In pubblico, mai una nota stonata. Mai una parola diversa da quelle usate dai suoi colleghi. In pubblico Luigi Di Maio è, come usava dire nei partiti stalinisti, “fedele alla linea”. Il che sarebbe anche cosa buona e giusta se il M5s fosse un partito come gli altri, dall’identità definita e la collocazione strategica acclarata. Ma non è così. I pentastellati sono ancora in mezzo al guado, oscillano ancora tra idealismo e pragmatismo, si dimenano tutt’oggi tra le teorie astratte del guru recentemente scomparso (Gianroberto Casaleggio) e la pratica quotidiana di una classe politica imbrigliata da regole impolitiche. Regole che con tutta evidenza non servono a nulla se non ad assicurare il comando incontrastato della Casaleggio associati e, ammesso che la cosa lo interessi ancora, di Beppe Grillo. Lo testimoniano i numeri. Per un movimento che, stando ai sondaggi, contende al Pd la palma di primo partito d’Italia, presentarsi con candidati propri solo nel 18% delle città in cui si vota non è segno di un’aristocratica diversità, ma prova provata di un’incapacità organizzativa. Mentre il fatto che 13 dei 17 sindaci fatti eleggere fino ad oggi abbiano problemi con la giustizia o con il regolamento grillino non depone certo a favore della loro presunta superiorità morale né della bontà delle regole cui si sono, più o meno coattivamente, adeguati. Il M5s non è un partito come gli altri, è un movimento rivoluzionario. E la Storia insegna che prima o poi i movimenti rivoluzionari sono costretti a scendere a patti con la realtà. Quasi sempre ciò avviene al termine di un duro scontro tra l’ala più radicale (che teme di perdere la purezza ideale delle origini) e l’ala più moderata (che si rende conto che la purezza ideale va bene finché si sta all’opposizione, ma è incompatibile con lo status di forza politica di governo). E’ giunto il momento per i grillini di attraversare questo passaggio di crescita, anche a costo di un violento conflitto interno. Anche a costo di una scissione. Luigi Di Maio ha tutte le qualità per assumere il ruolo di leader dell’ala moderata e, se ne è capace, dell’intero Movimento. Sta ora a lui dimostrare di poter esistere non solo nei retroscena dei giornali, ma in una scena aperta. Alla luce del sole.