Di Lorenzo Bianchi

“La risposta ci sarà”, ha garantito il 17 aprile il capo di stato maggiore delle Forze israeliane di difesa (in acronimo inglese Idf) Herzi Halevi durante la sua visita alla base aerea di Nevatim nel sud di Israele. “Consigliamo ai nemici di non commettere alcun errore strategico, perché l’Iran è pronto a colpirli, soprattutto con i caccia Sukhoi-24, i bombardieri tattici supersonici russi”, ha minacciato il comandante delle forze aeree di Teheran Hamid Vahedi. “La posizione dei centri nucleari del nemico sionista è stata definita e abbiamo a nostra disposizione le informazioni necessarie su tutti gli obiettivi. In risposta a qualsiasi ipotetica azione che potrebbero intraprendere, saremo pronti a lanciare potenti missili per distruggerli”. Il generale Ahmad Haqtalab, comandante dell’unità di difesa e sicurezza nucleare dei Pasdaran iraniani, va dritto al punto e anticipa che il suo Paese potrebbe “riconsiderare” la politica atomica, se “Israele minaccerà gli impianti nucleari iraniani”. Più tardi, al Consiglio di Sicurezza Onu, il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian ha rincarato la dose: “In caso di ulteriori attacchi da parte del regime israeliano, l’Iran non esiterebbe neanche un attimo ad una risposta che indurrà lo stato ebraico a rimpiangere le sue azioni”. Bocce ferme per ora, ma postazioni di tiro pronte, in attesa dell’annunciato contrattacco israeliano che, secondo fonti americane, non dovrebbe avvenire prima della fine della Pasqua ebraica, festività che cominciano il 22 aprile e si concludono il 29. La Casa Bianca ha smentito le indiscrezioni secondo le quali avrebbe dato al premier israeliano Benyamin Netanyahu il via libera a un’operazione a Rafah in cambio della rinuncia a colpire l’Iran per vendicare l’attacco del 13 aprile.

Washington ha annunciato nuove sanzioni contro Teheran. Nel mirino ci sono i droni usati contro Israele. L’Iran li fornisce anche alla Russia per attaccare l’Ucraina. Gli Usa e la Gran Bretagna, in un’iniziativa congiunta, hanno identificato 16 individui e alcune aziende che ne consentono la produzione attraverso componenti e motori. I più noti sono i velivoli senza pilota Hesa Shahed (martiri ndr,) 136 . Sulla produzione di droni si è concentrato anche il Consiglio europeo riunito a Bruxelles. “L’idea è di colpire le compagnie che servono per i velivoli senza pilota e i missili”, ha detto il presidente Charles Michel. “Siamo favorevoli alla possibilità di imporre sanzioni all’Iran per l’attacco a Israele”, ha dichiarato a Capri il ministro degli Esteri Antonio Tajani, precisando però che il G7 “invita tutti alla prudenza” e ribadendo: “Siamo amici di Israele, lo sosteniamo, ma vogliamo una de-escalation in quell’area”.  Al G7 la Repubblica islamica, attraverso l’ambasciata di Londra, aveva chiesto di non adottare “misure non costruttive”.

Dopo un incontro a Doha con il capo dell’ufficio politico di Hamas Ismail Hanyeh, il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan, ha ribadito la disponibilità del Movimento di Resistenza Islamica a deporre le armi nel caso in cui venga riconosciuto uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato una risoluzione proposta dall’Algeria a nome dei Paesi arabi per l’ammissione della Palestina. Gli Stati Uniti hanno opposto il veto, il segretario generale Antonio Guterres ha ribadito che l’offensiva israeliana a Gaza ha creato un «paesaggio infernale» nel quale, secondo Hamas, sono state uccise finora 33.970 persone.  Israele ha comunicato di aver fulminato Ismail Yousef Baz, “un veterano dell’ala militare di Hezbollah” che comandava la regione costiera di Tiro con un grado equivalente a quello di  generale di brigata.

Nevatim è stata raggiunta da quattro missili balistici iraniani, ma ha continuato a funzionare regolarmente. Un razzo è arrivato vicino a una pista di atterraggio, due sono caduti in spazi aperti e uno ha sfiorato un edificio in costruzione. Da Nevatim è decollato l’imponente aereo “Ala di Sion”. Era stato costruito per il primo ministro Benjamin Netanyahu, ma non era mai stato utilizzato dopo la consegna avvenuta diversi anni fa. “L’Iran – ha spiegato Halevi – voleva danneggiare le capacità strategiche dello stato di Israele, un fatto mai accaduto prima. Noi avevamo preparato l’operazione “scudo di acciaio” che ha portato Teheran a dover fare i conti con una risposta di superiorità aerea sul fronte opposto”. Halevi allude allo schieramento inedito che ha affrontato l’attacco iraniano di sabato notte affidato al lancio di 170 droni, di 30 missili cruise e di 120 missili balistici. Il 99 per cento è stato neutralizzato prima che entrasse nello spazio aereo di Gerusalemme dall’aviazione israeliana rinforzata da caccia degli Stati Uniti, del Regno Unito, della Giordania, della Francia e di altri Paesi. Il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha chiarito al suo pari grado statunitense Lloyd Austin che il suo Paese “non accetterà l’equazione che l’Iran risponde con un attacco diretto ogni volta che Gerusalemme colpisce obiettivi in Siria”.  L’unica vittima dell’attacco iraniano del 13 aprile è stata una bimba beduina di 7 anni, ferita gravemente da un frammento di missile nel deserto del Negev.

Trecentosessanta droni in due ondate (nella foto di “Times of Israel” un frammento) e poi una terza raffica di missili. Così il 13 aprile l’Iran ha reagito all’uccisione nel consolato iraniano di Damasco del generale dei Pasdaran Mohammad Reza Zahedi, l’ufficiale che era stato inviato dalla teocrazia a sedare la rivolta contro il regime di Bashar al Assad. L’ora della vendetta è arrivata alle 22 italiane (le 23 in Israele). L’attacco è stato lanciato dal territorio dell’Iran. Yahya Rahim, consigliere della Guida Suprema Ali Khamenei, esulta: “I sionisti sono in allerta e in preda al panico”. Un video in possesso di questo blog mostra un enorme frammento di drone arrivato a terra. Citando anonimi funzionari, il sito “Ynet” del più diffuso quotidiano israeliano “Yedioth Ahronot” scrive che è stato intercettato il 99 per cento dei velivoli senza pilota di Teheran. Molti potrebbero essere Hesa Shahed 136, vettori lunghi circa 3,5 metri e larghi 2,5 nella parte posteriore. Pesano circa 200 chili (50 di esplosivo trasportato), sono in grado di volare per 2500 chilometri a una velocità’ massima di 185 all’ora. L’emittente televisiva israeliana “Canale 12” ha attribuito agli Stati Uniti il merito di essere stati i primi a “vedere” il lancio degli aerei senza equipaggio a bordo. 

Ad ogni buon conto Israele aveva chiuso le scuole, gli uffici pubblici e lo spazio aereo almeno fino al 15 aprile”.  Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha convocato il gabinetto di guerra e in un secondo tempo quello di sicurezza. “I nostri sistemi di difesa – ha dichiarato – sono dispiegati e siamo preparati per qualsiasi scenario, sia in difesa che in attacco. Lo Stato di Israele è forte, l’IDF è forte, l’opinione pubblica è forte. Apprezziamo gli Stati Uniti per essere al fianco di Israele così come il sostegno del Regno Unito, della Francia e di molti altri Paesi”. “Ho stabilito – ha scandito – un principio chiaro: chiunque ci faccia del male, gli faremo del male. Ci difenderemo da ogni minaccia e lo faremo con calma e determinazione. So che anche voi, cittadini israeliani, mantenete la calma. Vi esorto ad ascoltare le direttive del Comando del Fronte Interno. Restiamo uniti e, con l’aiuto di Dio, insieme sconfiggeremo tutti i nostri nemici”.

Almeno quattro caccia americani e due francesi sono decollati dopo l’attacco lanciato dall’Iran. Gli F18 statunitensi, secondo quanto si apprende da fonti d’intelligence della Nato, si sarebbero alzati in volo dalla portaerei Eisenhower che si trovava nella parte settentrionale del Mar Rosso. Il presidente Joe Biden ha deciso di accorciare il fine settimana in Delaware e di tornare subito alla Casa Bianca per “consultazioni urgenti” sulla crisi in Medio Oriente alle quali ha partecipato anche il segretario di Stato Antony Blinken.

l’Iran ha rivendicato il sequestro di una nave di parziale proprietà israeliana nello Stretto di Hormuz dopo averla abbordata con un elicottero e con forze speciali. Si tratta della Msc Aries, che batte bandiera portoghese ed è di proprietà della Gortal Shipping Inc, affiliata a Zodiac Maritime, di proprietà dell’imprenditore israeliano Eyal Ofer. L’agenzia ufficiale iraniana “Irna” ha sottolineato che la nave “appartiene al capitalista sionista Eyal Ofer” e che il cargo si stava dirigendo “verso le acque territoriali iraniane”. Gli Usa hanno chiesto il rilascio immediato del natante “fermato in acque internazionali” e hanno ribadito “l’incrollabile sostegno” all’alleato israeliano di fronte alle minacce degli ayatollah. L’equipaggio di 25 persone, ha aggiunto su “X” la portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americana Adrienne Watson, “è composto da cittadini indiani, filippini, pakistani, russi ed estoni”. Lo spazio aereo su Teheran è chiuso.

Mohammed Reza Zahedi, generale di brigata e comandante delle forze speciali al Quds dei Pasdaran iraniani in Siria, era stato ucciso a Damasco il primo aprile da un missile attribuito ad Israele assieme a due consiglieri di Teheran e a cinque membri del Corpo dei guardiani della rivoluzione. Uno sarebbe il vice di Zahedi, il generale Mohammed Hadi Haj Rahimi. Altre vittime sarebbero agenti dell’intelligence siriana. I deceduti sarebbero undici. Alle 17 ora locale il razzo ha completamente distrutto il consolato dell’Ambasciata dell’Iran nella capitale siriana. “Il nemico israeliano ha lanciato degli attacchi aerei dal Golan occupato, prendendo di mira l’edificio del consolato iraniano a Damasco”, ha dichiarato Teheran in una nota. L’ambasciatore si è salvato. L’edificio è nell’elegante quartiere Mezzeh, sede anche di altre ambasciate e di edifici delle Nazioni Unite. L’edificio è stato completamente distrutto. Secondo Hossein Akbari, ambasciatore della teocrazia iraniana a Damasco, aerei da caccia F – 35 hanno lanciato 6 missili. Il raid è il quinto in otto giorni.

In Iran solo il 41 per cento degli aventi diritto si era recato alle urne all’inizio di marzo per rinnovare il Parlamento, 290 deputati, e per scegliere i membri dell’Assemblea degli Esperti, gli ottantotto esponenti del regime che dovranno eleggere la prossima Guida Suprema. Nelle prime elezioni indette dopo la morte di Mahsa Amini, la giovane curda arrestata perché una ciocca dei suoi capelli non era coperta dal velo, si è registrata l’affluenza più bassa dai tempi della rivoluzione islamica del 1979, a Teheran meno del 24%  (nella capitale gli iscritti alle liste elettorali erano erano 8 milioni). Secondo gli attivisti che si battono per i diritti umani sarebbe “intorno al 30%”.

Nel giorno del voto il regime ha condannato a tre anni e otto mesi di carcere il cantante pop Shervin Hajizadeh, autore di “Baraye”, un brano che è diventato una sorta di inno durante le rivolte anti governative del 2022 e del 2023. All’artista, 26 anni, premiato in passato con un Grammy speciale per la migliore canzone sul cambiamento sociale, è stato vietato di lasciare il Paese. La Repubblica islamica si è anche fatta beffe di lui intimandogli di fare pubblicità sui social media per la teocrazia e di incidere un brano “sui crimini degli Stati Uniti contro l’umanità”.

Khamenei è alla guida del Paese dal 1989 e ha accumulato un potere che nella storia iraniana può essere paragonato solo al vertice della dinastia Qajar. La Guida Suprema ha costruito un apparato di 5 mila persone nel quale il figlio Mojtaba ha un ruolo occulto, ma centrale. Il presidente Ebrahim Raisi lavora sotto l’influenza costante dell’apparato della Guida Suprema. Al momento non si conoscono candidati alla successione al vertice.

“Boicottare queste elezioni è un dovere morale per tutti gli iraniani che amano la libertà e che vogliono la giustizia”, ha dichiarato Narges Mohammedi, premio Nobel per la Pace e attualmente rinchiusa a Evin, il carcere dei dissidenti. Quelle del 1 marzo saranno le prime elezioni generali dopo le proteste di piazza del movimento “Donna, vita e libertà”.

Le manifestazioni, che hanno interessato gran parte del Paese, chiedevano esplicitamente la fine della Repubblica islamica e di uno dei suoi pilastri: l’obbligo del velo per le donne, l’hijab. Il regime ha risposto con una repressione violenta e con una nuova legge sul copricapo ancora più restrittiva. Cinquecento persone sono state uccise. Le esecuzioni capitali sono state almeno otto. Una crudeltà che la popolazione, e in particolare le donne, non hanno dimenticato. Il movimento “Donne, Vita, Libertà” aveva invitato le iraniane ad astenersi “per non divenire complici dei crimini del regime”. Sulle piattaforme social molte hanno giurato che torneranno a votare solo quando ci sarà un referendum che permetta di scegliere il sistema di governo del Paese.

All’alba del 23 gennaio in Iran era stato impiccato Mohammad Ghobadlou, un disabile mentale di 23 anni che aveva partecipato alle prime manifestazioni del movimento “Donna, vita, libertà”. Al termine di un primo processo nel mese di luglio del 2023 era stato condannato a morte. Il verdetto era stato impugnato. Secondo carte ufficiali pubblicate su “X” dall’avvocato di Ghobadlou poco prima dell’esecuzione, il capo della magistratura iraniana Gholamhossein Mohseni Eje’i, su segnalazione del responsabile della procura di Teheran Ali Alghasi, ha bloccato il processo d’appello e rinviato il caso ai giudici della sezione 39 della Corte suprema, la stessa che in precedenza aveva ratificato la condanna a morte. Dopo l’impiccagione di Ghobadlou e le successive proteste nazionali e internazionali, la sezione 39 della Corte suprema ha reso noto un documento datato 4 gennaio 2024 che in un paragrafo annullava, senza fornire alcuna spiegazione, il verdetto emesso nel luglio 2023 dalla prima sezione.

il 4 gennaio 2024 due kamikaze si erano fatti esplodere a un chilometro e mezzo e a due chilometri e settecento metri dalla moschea Saheb al-Zaman di Kerman nella quale sono custodite le spoglie del generale dei Pasdaran iraniani Qassem Soleimani, numero uno delle forze speciali “Al Quds”. Le vittime sono almeno 89, i feriti 284.Era il quarto anniversario della morte. Nel gennaio del 2020 l‘alto ufficiale fu ucciso  nell’aeroporto di Baghdad da un raid ordinato dall’ex presidente americano Donald Trump. Lo Stato islamico ha fatto sapere attraverso i suoi canali Telegram che due suoi membri hanno “attivato la loro cintura esplosiva” nel bel mezzo di “un grande raduno di apostati”.

La figura di Soleimani è stata commemorata anche in Iraq da migliaia di persone che hanno sfilato nella città santa sciita di Najaf. All’aeroporto di Baghdad il primo ministro iracheno Muhammad Sudani ha ricevuto i familiari delle dieci vittime dell’attacco americano. Oltre a Soleimani, quattro erano ufficiali dei Pasdaran e leader di milizie irachene sostenute da Teheran. Anche il capofila degli Hezbollah libanesi Hassan Nasrallah a Beirut ha reso omaggio al comandante delle forze “Al Quds” affermando che “i successi di Hamas nella Striscia di Gaza sono dovuti al lavoro fatto per anni da Qassem Soleimani”.

La contestazione interna della teocrazia al potere non si è mai spenta. Alle esequie per la sedicenne Armita Garavand, nel cimitero Behesht Zahra di Teheran, domenica 29 ottobre del 2023 era stata fermata e picchiata duramente l’avvocata e attivista per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, 60 anni, madre di Mehraveh e di Nima. Era in congedo temporaneo dal carcere di Evin, la fortezza nella quale sono rinchiusi sistematicamente i nemici del regime. Molti ora sono militanti e attivisti del movimento “Donne, vita e libertà”, la protesta scaturita dall’uccisione di Mahsa Jina Amini, 22 anni, colpita a morte perché una ciocca di capelli le spuntava dal velo islamico, l’hijab. L’ultimo verdetto aveva condannato Nasrin a 33 anni di carcere e a 148 frustate per spionaggio, propaganda contro la teocrazia, incitamento alla prostituzione e alla corruzione e insulti alla Guida del Paese, l’ayatollah Ali Khamenei.

Il primo ottobre Armita era entrata nella metropolitana della capitale a capo scoperto. Ventotto giorni dopo è spirata. Ai suoi funerali, secondo l’agenzia di stampa semiufficiale “Fars”, Nasrin Sotoudeh non indossava il velo e quindi avrebbe “disturbato la sicurezza mentale della società”. Durante il rito i presenti avevano gridato: “Questo fiore spezzato è un dono alla patria”. «D’ora in poi – aveva scritto in precedenza Sotoudeh – dovremmo proteggere le nostre giovani (dalla polizia) nelle metropolitane, fino a quando non arriverà il momento di un giusto processo ai responsabili e ai mandanti dell’omicidio di Stato”.

Anche Narges Mohammadi si è unita al coro di accuse, scrivendo sui social network: “La verità sulla morte di Armita è stata sepolta sotto un cumulo di inganni e minacce”, il governo “ha coperto il suo crimine”. Fra i personaggi iraniani di spicco che si sono espressi figurano anche i due famosi registi Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof: “Piangiamo Armita, ma, nel frattempo, fissiamo la luce che brilla su questa terra dalla resistenza e dalla ricerca della libertà delle donne e delle ragazze iraniane”.

Iran Human Rights”, un’organizzazione non governativa guidata e fondata da Mahmoud Amiry Moghaddam, ha scritto che “fin dal primo ottobre 2023 le autorità hanno tentato di nascondere la verità trasferendo Armita dalla fermata Shohada della metropolitana all’ospedale Fajir dell’Aeronautica militare. Lì è stato accertato che era in coma. Il due ottobre 2023 le forze di sicurezza hanno arrestato per diverse ore Maryam Lotfi, una giornalista del quotidiano “Sharg” che era andata a cercare di raccogliere informazioni in ospedale. Iran Human Rights ha avuto notizie di minacce contro l’equipe medica che si occupava del caso e di interruzioni delle telecamere a circuito chiuso del luogo di cura. Con la risoluzione S 35/1 Il 24 novembre del 2022 la Commissione dell’Onu per i diritti umani ha istituito una “Missione internazionale indipendente di accertamento dei fatti” sulle violazioni dei diritti umani commesse dalla Repubblica Islamica dell’Iran dall’inizio delle manifestazioni del movimento “Donna, vita, libertà”.

La sedicenne Armita, di origini curde come Mahsa Jina Amini, aveva sfidato le leggi della Repubblica islamica che impongono alle donne di indossare in pubblico il velo, lo hijab, è stata dichiarata morta in ospedale dopo 28 giorni di coma. Il primo ottobre era entrata nella metropolitana di Teheran a capo scoperto.  Secondo i testimoni, gli agenti della polizia morale le si sono scagliati contro appena è salita su un convoglio. Nella colluttazione la giovane è stata spinta con violenza e ha sbattuto la testa contro un palo di sostegno. Per il regime invece Armita è svenuta per un calo di pressione ed è caduta. Gli attivisti hanno sostenuto che i filmati sono stati tagliati e hanno chiesto che venissero pubblicate le registrazioni integrali delle telecamere di sicurezza all’interno del treno. Armita, è la loro tesi, è stata un’altra vittima della repressione di Teheran contro le donne che si oppongono al velo.

Il 18 settembre 2023, appena due giorni dopo l’anniversario dell’uccisione di Mahsa Jina Amini, il presidente americano Joe Biden ha deciso di rimpinguare le casse degli ayatollah con sei miliardi dollari, il prezzo del rilascio di cinque cittadini statunitensi. A Teheran torneranno cinque iraniani. “Tutti colpevoli di reati minori” ha tenuto a precisare l’amministrazione di Washington. Si riuniranno ai loro congiunti Siamak Namazi, Morad Tahbaz, Emad Sharghi e altri due connazionali. Tutti avevano la doppia cittadinanza, ma Teheran non riconosce quella statunitense e li considerava cittadini iraniani a tutti gli effetti. Namazi è un imprenditore. Fu condannato nel 2015. Tahbaz, che è anche suddito di Sua Maestà Britannica, è stato accusato di aver “cospirato con gli Usa”. I due, che hanno chiesto e ottenuto l’anonimato, sono una ricercatrice e un altro uomo d’affari. Potranno tornare in Iran Reza Sarhangpour e Kambiz Attar Kashani, entrambi imputati di aver violato le sanzioni imposte alla teocrazia dagli Stati Uniti. Della cinquina che potrà tornare in Iran faranno parte anche Kaveh Lotfolah Afrasiabi, sospettato di essere un agente degli ayatollah, Mehrdad Moein Ansari e Amin Hasanzadeh. Gli ultimi due avrebbero collaborato con il ministero della difesa di Teheran. Namazi ha ringraziato Biden “per aver considerato la vita dei cittadini americani al di sopra della politica”. L’amministrazione del Presidente americano ha spiegato che i fondi, arrivati all’Iran dalla Corea del sud per l’acquisto di petrolio con l’intermediazione del Qatar, potranno essere “usati solo per scopi umanitari”. Mentre decideva lo scambio Biden ha firmato nuove sanzioni a carico dell’ex presidente della teocrazia Mahmud Ahmadinejad e del dicastero dell’Intelligence di Teheran per la sparizione, 17 anni fa, dell’ex agente dello Fbi Bob Levinson.

Tre giorni prima del 13 settembre 2023, anniversario dell’arresto di Mahsa Jina Amini, la teocrazia iraniana aveva chiarito le sue intenzioni sulla ricorrenza. In un ospedale di Karaj, venti chilometri a ovest di Teheran, era morto Hamed Bagheri. Invitava la gente a scendere in piazza. Gli agenti gli hanno sparato quattro proiettili. La versione ufficiale è che “deteneva armi da taglio”. La fonte della notizia è Fereshteh Rezaifar, un’attivista del collettivo “Donna, vita, libertà” di Roma.

La mattina del 16 settembre i Pasdaran della Rivoluzione hanno arrestato sulla soglia di casa a Saqqez Amjad Amini, il padre di Mahsa Jina. Secondo l’organizzazione non governativa “Iran Human Rights” Amjad Amini è stato rilasciato “dopo poche ore”. Fereshteh Rezaifar, un’attivista del collettivo “Donna, vita, libertà” di Roma, ha aggiunto altri particolari: “In settimana era già stato convocato quattro volte dalla polizia, Gli hanno ordinato di annullare la cerimonia per la memoria di Mahsa Jina minacciando di arrestare anche Kiarash, l’altro figlio. Ma la famiglia non cede”. Le forze di sicurezza hanno bloccato l’accesso al cimitero di Aichi, il luogo nel quale è sepolta Mahsa Jina. Nel Kurdistan iraniano la polizia ha chiesto ai cittadini di non manifestare. Se non obbediranno, ha assicurato, saranno affrontati con armi da fuoco. Non erano parole al vento. Fardin Jafari si era avvicinato al camposanto di Aichi ed è stato colpito dagli agenti. E’ stato ricoverato in ospedale in gravi condizioni.

Nella capitale la polizia ha sparato contro i dimostranti vicino all’Università di Teheran e nella centrale piazza Azadi. Le forze dell’ordine hanno chiuso gli accessi ai cimiteri nei quali sono sepolti i caduti dopo la morte di Mahsa Amini. Gli iscritti alle Università Beheshti, Elm-o-Sanat e Amir Kabir hanno affidato a comunicati i loro no alla teocrazia. Da diversi cavalcavia penzolano striscioni che ricordano la fine di Mahsa Jina e in molti quartieri sui muri delle case sono apparse scritte di protesta. Sette detenute nel carcere di massima di sicurezza di Evin hanno bruciato il loro velo e tenuto un sit in gridando “donna. Vita e libertà”. Le prigioniere hanno voluto rendere pubblici i loro nomi. Sono Narges Mohammadi, Sepideh Gholian, Azadeh Abedini, Golrokh Iraee, Shakila Monfared, Mahboubeh Rezai e Vida Rabbani. Gli agenti hanno imbrattato con la vernice nera il sepolcro di Nina Shakarami, 16 anni, morta durante le manifestazioni del 2022 a Teheran . L’agenzia di attivisti per i diritti umani “Hrana” ha diffuso i numeri raccapriccianti della repressione nell’ultimo anno: 551 persone hanno perso la vita nelle proteste, tra i quali 68 minorenni. Gli arrestati sono circa 20 mila. Sette sono stati impiccati.

il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha annunciato nuove sanzioni che prendono di mira 29 persone e organizzazioni. Diciotto sono Pasdaran, e agenti delle forze dell’ordine. Uno dei destinatari é il capo dei penitenziari iraniani. Secondo l’agenzia di stampa “Nova”, sono stati sanzionati Alireza Abedinejad, amministratore delegato di “Douran Software Technologies”, e i media controllati dallo stato “Press Tv“, “Tasnim News Agency” e “Fars News”. Il decimo pacchetto di restrizioni dell’Unione Europea riguarderà invece il vice comandante in capo del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche nel “Quartier generale della sicurezza centrale dell’Imam Ali”, i comandanti della polizia delle province di Mazandaran e di Fars, il direttore della prigione di Kachui, le carceri di Sanandaj, Zahedan e Esfahan, l’agenzia di stampa dei Pasdaran “Tasnim News” e il Consiglio Supremo del Cyberspazio.

Fereshteh Rezaifar ha dichiarato che è stata imprigionata anche la madre di Kian Pirfalak, il bimbo di undici anni che fu ucciso nell’assalto al mercato di Izeh, capoluogo del Khūzestān. Il governo accusò l’Isis, ma per i militanti di “Donna, Vita e Libertà” furono gli agenti ad aprire il fuoco. “Di recente è stato ammazzato anche il cugino”, rincara Rezaifar. Le manette sono scattate ai polsi del padre di Mohammad Mehdi Karami, il 21enne giustiziato a gennaio per aver protestato a Karaj per la morte di Mahsa. Il genitore a dicembre denunciò che l’avvocato d’ufficio assegnato dal tribunale a pochi giorni dall’impiccagione di Karami ancora non aveva risposto alle sue chiamate e non stava seguendo il caso. Rezaifar non fa sconti neppure ai magistrati: “Nei processi spesso contestano reati mai commessi”. I parlamentari remano nella direzione indicata dagli ayatollah. “E’ di questi giorni – riferisce l’attivista – la legge che prevede fino a 10 anni di reclusione per le donne che non indossano il velo in pubblico. E’stato calcolato che se venisse applicata, la polizia morale – che è stata ripristinata, dopo una momentanea sospensione – dovrebbe arrestare circa 6mila persone al giorno”.

L’imam sunnita della moschea di Zahedan, capoluogo della provincia sudorientale del Sistan Balucistan, ha ricordato, durante la preghiera di venerdì 15 settembre 2023, l’ondata di proteste per l’uccisione di Mahsa Jina Amini. Il suo sermone è stato censurato con un blocco temporaneo di internet, ma dopo la preghiera almeno un centinaio di persone ha marciato per le strade gridando “non dimenticheremo il massacro di Zahedan”, il “venerdì di sangue”. Il 30 settembre del 2022 divamparono in città proteste contro il governo centrale che portarono alla morte di 4 agenti e di un centinaio di manifestanti. Le porte del carcere si sono aperte anche per Armin Rostami, il fratello di Aida, la dottoressa uccisa a Teheran in dicembre perché si ostinava a curare i feriti delle dimostrazioni.

Nella capitale da diversi cavalcavia penzolano striscioni che ricordano la fine di Mahsa Jina e in molti quartieri sui muri delle case sono apparse scritte di protesta contro la teocrazia degli ayatollah. Nel Kurdistan iraniano la polizia ha chiesto ai cittadini di non manifestare minacciando di affrontarli con armi da fuoco. A Saqqez, il luogo di origine di Mahsa Jina Amini, gli alberghi negano le stanze a chi viene da fuori città. La tomba della giovane e il padre Amjad sono sottoposti a una vigilanza continua con le telecamere. Un altro padre per il quale sono scattate le manette è il genitore di Mohammad Mahdi Karami, impiccato in gennaio. La stessa sorte è toccata alla sorella e al marito di Shirin Alizadeh, uccisa l’anno scorso in ottobre.

Il 20 luglio del 2023 la polizia religiosa era tornata sulle strade iraniane per registrare e arrestare le donne che non indossano correttamente il velo obbligatorio per legge dal 1979. Il compito di annunciare la notizia è stato affidato a Saeed Montazer al-Mahdi, capo della polizia del Paese. La decisione sarebbe stata adottata “su richiesta della popolazione e delle istituzioni per garantire la sicurezza pubblica e le fondamenta della famiglia”. Il giornale “Iran International”, rilanciato dall’attivista Masih Alinejad che ha un seguito di quasi 9 milioni di followers, ha pubblicato il video di una ragazza a capo scoperto braccata da una donna che indossa una tunica lunga fino ai piedi. L’anziana cerca di trascinarla verso una camionetta bianca, del tutto simile a quella sulla quale fu caricata Mahsa Jina Amini il 13 settembre del 2022. Nonostante le telecamere a riconoscimento facciale, le multe e gli arresti, la protesta è continuata anche con stratagemmi molto creativi. L’ultimo sono gli ululati notturni dalle terrazze o dalle case. Gli iraniani si sdraiano sul pavimento dei balconi o sotto le finestre delle loro abitazioni di notte e ululano. I paramilitari basiji hanno in dotazione termocamere che sono in grado di localizzare gli individui anche attraverso i muri. Sdraiarsi per terra è un tentativo un po’ artigianale di non essere facilmente localizzati.

l 29 maggio del 2023 era cominciato a Teheran il processo a porte chiuse alla giornalista iraniana Elaheh Mohammadi, 36 anni, arrestata dopo che aveva seguito a Saqqez il funerale di Mahsa Amini. Elaheh Mohammadi lavora per il quotidiano riformista “Ham Mihan” ed è comparsa davanti alla sezione numero 15 del “Tribunale rivoluzionario” della capitale. La reporter è accusata di “collaborazione con il governo ostile degli Stati Uniti, collusione contro la sicurezza nazionale e propaganda contro il sistema”, accuse che potrebbero comportare la pena di morte in caso di condanna.

Il giorno dopo è stata processata anche la fotoreporter Niloufar Hamedi, dipendente del giornale “Shargh”, un altro organo di stampa critico nei confronti degli ayatollah, finita in cella per un reportage dall’ospedale nel quale era stata ricoverata Mahsa Amini dopo essere stata fermata. La giovane era in coma e intubata. Qualche giorno dopo la reporter pubblicò anche una foto dei genitori di Mahsa che si abbracciavano in un corridoio della struttura sanitaria dopo aver saputo che la figlia era morta. L’accusa della quale deve rispondere è “propaganda contro il sistema” e “collusione contro la sicurezza nazionale”. Secondo i familiari, le due giornaliste hanno potuto incontrare i loro avvocati solo domenica 28 maggio.

Iran Human Rights ha pubblicato la notizia che l’8 maggio del 2023 sono stati impiccati due uomini condannati per blasfemia. Il 6 maggio è stato giustiziato il dissidente Farajollah Habib Chaab, un cittadino svedese di origini iraniane accusato di un attentato dinamitardo che nel 2018 costò la vita a 25 persone fra soldati e civili durante una parata militare ad Ahwaz, nella provincia del Khūzestān. Stoccolma ha convocato l’ambasciatore della teocrazia e ha condannato la “punizione inumana e irreversibile”. Chaab, 50 anni, noto anche come Habib Asyud, dopo aver vissuto per dieci anni in Svezia fu rapito da agenti iraniani in Turchia nel 2020 e portato in Iran. Un mese dopo la Tv di stato “Irib” mandò in onda un video nel quale Chaab ammetteva di essere responsabile di azioni terroristiche e di aver collaborato con gli 007 sauditi. Il 21 marzo la Corte suprema del regime degli ayatollah ha confermato la condanna a morte. In gennaio è stato condotto al patibolo il britannico-iraniano Alireza Akbari, 61 anni, condannato per spionaggio per conto del Regno Unito. Una circostanza che Londra ha sempre negato. In un messaggio audio a “Bbc Persian” Akbari aveva affermato di essere stato torturato e costretto a confessare davanti alla telecamera crimini che non aveva commesso.

 

Nasrin Ghadri, 35 anni, studentessa dottoranda in filosofia a Teheran, era morta sabato 5 novembre come Mahsa Amini. Durante le manifestazioni del 4 novembre agenti delle forze di sicurezza l’hanno colpita alla testa con un manganello. Lunedì 7 novembre sono scesi in piazza gli abitanti di Marivan, la sua città di origine nel Kurdistan iraniano. I dimostranti hanno gridato “Morte a Khamenei (la guida suprema del Paese)”, hanno bloccato diverse strade e hanno accusato il governo di aver organizzato, alle prime luci del giorno, una frettolosa sepoltura della giovane. Gli agenti hanno reagito, come al solito, sparando sulla folla e ferendo 35 dimostranti. Il padre, come accadde per Mahsa Amini, sarebbe stato costretto a dichiarare pubblicamente che la figlia è deceduta per “intossicazione” o per “una malattia”. Secondo l’organizzazione non governativa “Iran Human Rights” venerdì 4 novembre gli studenti maschi dell’Università di Babol, nel nord del Paese e vicina al Mar Caspio, nella loro mensa hanno rimosso la barriera di separazione dalle colleghe. Nella stessa giornata nella città di Kash 16 dimostranti sono stati fulminati dalla polizia degli ayatollah.

Il regime teocratico continua a chiudersi a riccio. Duecentoventisette parlamentari su duecentonovanta hanno chiesto ai leader del regime e ai magistrati di applicare la pena di morte contro i “mohareb” (nemici di Dio). “Chiediamo al governo – hanno scritto – di affrontare con fermezza gli autori di questi crimini e tutti coloro che hanno incitato le rivolte, tra cui alcuni politici”. Le Guardie Rivoluzionarie iraniane hanno fermato tre squadre affiliate al gruppo dissidente Mojahedin-e-Khalq Organization (Mko), una compagine che la teocrazia accusa di terrorismo. Un comunicato citato dall’agenzia di stampa semiufficiale “Fars” attribuisce agli arrestati l’intento di condurre azioni di sabotaggio e attentati nelle province del Khūzestān, di Fars e di Isfahan. I Mojahedin progettavano di coinvolgere “rivoltosi” per attaccare lo stato e i centri di sicurezza e di polizia, per distruggere proprietà pubbliche e commettere assassinii. Le autorita’ iraniane hanno arrestato 26 “terroristi takfiri” (miscredenti) sunniti sospettati di essere coinvolti nell’attentato del 26 ottobre al mausoleo di Shah Cheragh a Shiraz, costato la vita ad almeno 13 persone. L’attacco al mausoleo, il sito sciita piu’ sacro nel sud dell’Iran, e’ stato rivendicato dall’Isis, il sedicente Califfato Islamico. L’autore, morto per le ferite riportate durante l’arresto, è stato identificato come Abu Aisha, di nazionalita’ tagika. Il coordinatore della cellula sarebbe un azero. L’afgano Mohammed Ramez Rashidi è sospettato di aver garantito “supporto operativo”.

Un fiume di folla si è riversato nel cimitero di Khorramabad, capoluogo del Lorestan, una provincia dell’Iran occidentale, per la funzione funebre che avrebbe dovuto onorare i 40 giorni dalla scomparsa di Nika Shakarami. Nika è stata dichiarata morta dopo dieci giorni di assoluto silenzio. Le forze di sicurezza hanno accolto i partecipanti al corteo a colpi di arma da fuoco. Nika aveva bruciato il suo velo. Da un certificato risulta che le sono state fatali diverse ferite provocate da un oggetto rigido. Per la Procura di Teheran invece si sarebbe tolta la vita lanciandosi nel vuoto da un edificio in costruzione. A Mahabad le piazze si sono riempite dopo che è stato fulminato un dimostrante. La Prefettura della città è stata incendiata.

Sui social è diventata virale l’immagine della donna dai lunghi capelli sciolti che alza le braccia al cielo stando in piedi sul tetto sul tetto di una vettura, un’auto dell’immensa fila diretta al cimitero di Sakkez nel quale è stata sepolta Mahsa Amini, diecimila persone ha dovuto riconoscere perfino l’agenzia di stampa ufficiale “Irna”.  Il 30 ottobre si è intensificata la repressione da parte delle forze di sicurezza, in divisa e in borghese, dopo l’avvertimento rivolto ai manifestanti dal comandante delle Guardie Rivoluzionarie Hossein Salami che li aveva diffidati dal tornare in strada. Gli studenti della capitale Teheran, di Shiraz, di Babol, di Eslamshahr, di Sari, di Arak, di Qazvin, di Mashhad, di Parand, di Hamedan, di Khorramabad, di Ahvaz, di Zanjan e di Sanandaj hanno promosso nuove iniziative di protesta, durante le quali sono stati scanditi slogan contro la corruzione e la repressione. In alcuni video postati sui social media, si vedono le forze di sicurezza e in borghese sparare agli studenti con armi da fuoco, fucili a pallini e gas lacrimogeni, alla Shomal University di Teheran. A molti studenti è stato vietato l’ingresso negli atenei e nelle strutture annesse. Il 30 ottobre alcuni universitari sono stati aggrediti nei loro dormitori durante la notte con gas lacrimogeni e spari. Elnaz Rekabi, 33 anni, la campionessa di arrampicata libera che aveva partecipato ai campionati asiatici di Seul senza indossare il velo, ha dichiarato in pubblico che le era scivolato. Secondo la “Bbc” in lingua farsi è stata poi confinata agli arresti domiciliari. Il provvedimento sarebbe una forma di pressione sulla giovane perché rilasci una confessione forzata sulla sua presunta colpa. A questa opera di “convincimento” si sarebbe aggiunta la minaccia di porre sotto sequestro beni della sua famiglia per oltre 250 mila euro.

Nella serata di sabato 15 ottobre del 2022 nella fortezza carceraria di Evin, è divampato un incendio che ha ucciso quattro detenuti. Sarebbero incolumi il regista Jafar Panahi e il leader riformista Mostafa Tajzadeh. Secondo l’agenzia “Irna” le fiamme hanno investito la sezione numero 7 durante scontri fra i carcerati e i secondini. I rivoltosi avrebbero alimentato il fuoco in un deposito di vestiti. Gli ammutinati sono stati separati dagli altri prigionieri. Alcuni testimoni hanno riferito di aver sentito colpi di arma da fuoco e diverse esplosioni. Davanti a Evin si sono radunate decine di familiari. Per le autorità iraniane si “è trattato solo di una rissa tra un certo numero di condannati per reati finanziari e per furto”.

Mahsa Amini, era stata arrestata nella metropolitana della capitale all’uscita “Shahid Haghani” . “La portiamo – hanno detto gli agenti al fratello Kiarash – a fare una lezione di moralità”. E’ morta dopo tre giorni di coma. Il 20 settembre dell’anno scorso avrebbe  compiuto 22 anni. Le manifestazioni di protesta erano dilagate in tutto il Paese degli ayatollah, nelle strade, nei bazar, nelle università e nelle stazioni della metropolitana. Quarantuno persone sarebbero state fulminate dalle forze dell’ordine nella sola provincia del Sistan Baluchistan. Protestavano per lo stupro di una giovane di 15 anni abusata dal capo della polizia della città portuale di Chabahar. Nella capitale iraniana è stata fermata anche Donya Rad “colpevole” di non aver indossato il velo mentre sorseggiava un caffè con un’amica, anch’essa a capo scoperto. Il caso è scoppiato dopo la diffusione on-line di una foto del pranzo. Le forze di sicurezza sono intervenute, contattando Donya per chiederle spiegazioni. “Dopo alcune ore senza notizie – ha denunciato la sorella – Donya mi ha detto in una breve telefonata di essere stata trasferita nella prigione di Evin”. Il ministero degli esteri iraniano ha comunicato l’arresto di 9 stranieri provenienti da diversi paesi europei, inclusa l’Italia, con l’accusa di essere coinvolti o di essere stati nei luoghi delle proteste. L’organizzazione curda per i diritti umani Hengaw ha riferito che le forze di sicurezza hanno sparato nella notte fra giovedì 22 e venerdì 23 settembre 2023, con armi semiautomatiche contro i manifestanti a Oshnaviyeh (nel nord-ovest). L’hashtag #MahsaAmini ha raggiunto oltre 3 milioni di citazioni su Twitter, oggi “X“.