Di Lorenzo Bianchi

“La nostra gente non è contenta. Spero che la situazione cambi. Noi siamo qui, ma questo non vuol dire che non dobbiamo essere la loro voce. Io spero che le condizioni cambino secondo le aspettative del popolo”. Ehsan Hajsafi, 32 anni, il capitano della nazionale di calcio iraniana che gioca in difesa nell’Aek di Atene, annuncia che la sua squadra esprimerà il suo dissenso contro il regime degli ayatollah in una conferenza stampa. Ha esordito pronunciando la frase “nel nome di Dio e dell’arcobaleno”, le stesse parole pronunciate in un video da Kian Pirfalak, un bambino di 9 anni ucciso in Iran. La repressione della teocrazia continua senza sosta. La nota attrice Katayoun Riahi, 60 anni, è stata arrestata con l’accusa di aver fatto “post provocatori sui social e su altri media”. In settembre aveva rilasciato un’intervista all’ “Iran International tv”, un’emittente con sede al Londra senza indossare il velo.

Nasrin Ghadri, 35 anni, studentessa dottoranda in filosofia a Teheran, era morta sabato 5 novembre come Mahsa Amini, la donna curda di 22 anni arrestata il 13 settembre perché lasciava scoperta una ciocca di capelli. Durante le manifestazioni di venerdì scorso 4 novembre agenti delle forze di sicurezza l’hanno colpita alla testa con un manganello. Lunedì 7 novembre sono scesi in piazza gli abitanti di Marivan, la sua città di origine nel Kurdistan iraniano. I dimostranti hanno gridato “Morte a Khamenei (la guida suprema del Paese)”, hanno bloccato diverse strade e hanno accusato il governo di aver organizzato, alle prime luci del giorno, una frettolosa sepoltura della giovane. Gli agenti hanno reagito, come al solito, sparando sulla folla e ferendo 35 dimostranti. Il padre, come accadde per Mahsa Amini, sarebbe stato costretto a dichiarare pubblicamente che la figlia è deceduta per “intossicazione” o per “una malattia”. Secondo l’organizzazione non governativa “Iran Human Rights”, guidata da Oslo da Mahmud Amiry Moghaddam, sempre venerdì 4 novembre gli studenti maschi dell’Università di Babol, nel nord del Paese e vicina al Mar Caspio, hanno rimosso la barriera di separazione dalle colleghe nella loro mensa. Nella stessa giornata nella città di Kash 16 dimostranti sono stati fulminati dalla polizia degli ayatollah. Secondo l’agenzia degli attivisti per i diritti umani iraniani “Hrana”, quasi 15mila persone sono state arrestate dal 16 settembre e 319 sono state uccise. Cinquanta erano minorenni. I caduti delle forze di sicurezza sarebbero trenta.

Il regime teocratico continua a chiudersi a riccio. Duecentoventisette parlamentari su duecentonovanta hanno chiesto ai leader del regime e ai magistrati di applicare la pena di morte contro i “mohareb” (nemici di Dio). “Chiediamo al governo – hanno scritto – di affrontare con fermezza gli autori di questi crimini e tutti coloro che hanno incitato le rivolte, tra cui alcuni politici”. Le Guardie Rivoluzionarie iraniane hanno fermato tre squadre affiliate al gruppo dissidente Mojahedin-e-Khalq Organization (Mko), una compagine che la teocrazia accusa di terrorismo. Un comunicato citato dall’agenzia di stampa semiufficiale “Fars” attribuisce agli arrestati l’intento di condurre azioni di sabotaggio e attentati nelle province del Khuzestan, di Fars e di Isfahan. I Mojahedin progettavano di coinvolgere “rivoltosi” per attaccare lo stato e i centri di sicurezza e di polizia, per distruggere proprietà pubbliche e commettere assassinii. Le autorita’ iraniane hanno arrestato 26 “terroristi takfiri” (miscredenti) sunniti sospettati di essere coinvolti nell’attentato del 26 ottobre al mausoleo di Shah Cheragh a Shiraz, costato la vita ad almeno 13 persone. L’attacco al mausoleo, il sito sciita piu’ sacro nel sud dell’Iran, e’ stato rivendicato dall’Isis, il sedicente Califfato Islamico. L’autore, morto per le ferite riportate durante l’arresto, e’ stato identificato come Abu Aisha, di nazionalita’ tagika. Il coordinatore della cellula sarebbe un azero. L’afgano Mohammed Ramez Rashidi è sospettato di aver garantito “supporto operativo”.

Un fiume di folla si è riversato nel cimitero di Khorramabad, capoluogo del Lorestan, una provincia dell’Iran occidentale, per la funzione funebre che avrebbe dovuto onorare i 40 giorni dalla scomparsa di Nika Shakarami, 16 anni, una ragazza che aveva partecipato alle manifestazioni di protesta per l’uccisione di Mahsa Amini. Nika è stata dichiarata morta un mese fa dopo dieci giorni di assoluto silenzio. Le forze di sicurezza hanno accolto i partecipanti al corteo a colpi di arma da fuoco. Nika aveva bruciato il suo velo. Da un certificato di morte risulta che le sono state fatali diverse ferite provocate da un oggetto rigido. Per la Procura di Teheran invece si sarebbe tolta la vita lanciandosi nel vuoto da un edificio in costruzione. A Mahabad le piazze si sono riempite dopo che nei giorni scorsi è stato fulminato un dimostrante. La Prefettura della città è stata incendiata. Sui social è diventata virale la foto della donna dai lunghi capelli sciolti che alza le braccia al cielo stando in piedi sul tetto sul tetto di una vettura (nella foto), un’auto dell’immensa fila diretta al cimitero di Sakkez nel quale è stata sepolta Mahsa Amini, diecimila persone ha dovuto riconoscere perfino l’agenzia di stampa ufficiale “Irna”.  Il 30 ottobre si è intensificata la repressione da parte delle forze di sicurezza, in divisa e in borghese, dopo l’avvertimento di ieri rivolto ai manifestanti dal comandante delle Guardie Rivoluzionarie Hossein Salami che li aveva diffidati dal tornare in strada. Gli studenti della capitale Teheran, di Shiraz, di Babol, di Eslamshahr, di Sari, di Arak, di Qazvin, di Mashhad, di Parand, di Hamedan, di Khorramabad, di Ahvaz, di Zanjan e di Sanandaj hanno promosso nuove iniziative di protesta, durante le quali sono stati scanditi slogan contro la corruzione e la repressione. In alcuni video postati sui social media, si vedono le forze di sicurezza e in borghese sparare agli studenti con armi da fuoco, fucili a pallini e gas lacrimogeni, alla Shomal University di Teheran. A molti studenti è stato vietato l’ingresso negli atenei e nelle strutture annesse. Il 30 ottobre alcuni universitari sono stati aggrediti nei loro dormitori durante la notte con gas lacrimogeni e spari.

“Queste rivolte aprono la via al terrorismo”, ha sparato a zero il presidente iraniano Ebrahim Raisi.  “L’intenzione del nemico è quella di interrompere i progressi del Paese”, ha ribadito Raisi. Il presidente ha immediatamente incassato la solidarietà di Vladimir Putin che si è dichiarato favorevole “ad aumentare la cooperazione nella lotta al terrorismo”. Javaid Rehman, il relatore speciale dell’Onu sui diritti umani in Iran ha denunciato la “brutalità” del regime di Teheran e ha chiesto la creazione di un “meccanismo internazionale” per indagare sulla morte di “almeno 250 persone”. Elnaz Rekabi, 33 anni, la campionessa di arrampicata libera che aveva partecipato ai campionati asiatici di Seul senza indossare il velo, ha dichiarato in pubblico che le era scivolato. Secondo la “Bbc” in lingua farsi è stata poi confinata agli arresti domiciliari. Il provvedimento sarebbe una forma di pressione sulla giovane perché rilasci una confessione forzata sulla sua presunta colpa. A questa opera di “convincimento” si sarebbe aggiunta la minaccia di porre sotto sequestro beni della sua famiglia per oltre 250 mila euro.

All’inizio di novembre due giovani donne erano state stritolate nel tritacarne della repressione. Sono Arnika Gahemmaghami, 17 anni, e la studentessa universitaria Negim Abdolmaleki, 21 anni, che, secondo la sua compagna di stanza, è deceduta dopo essere rientrata nel dormitorio delle iscritte allo stesso ateneo. In entrambi i casi “Tasnim”, l’agenzia di stampa dei Pasdaran della Rivoluzione, propone ricostruzioni che discolpano le forze di sicurezza. Arnika Gahemmaghami sarebbe caduta da una finestra dopo dieci giorni di cure mediche. Le immagini scattate con i cellulare e condivise da Arnika sui social media nelle quali si vedeva che la giovane veniva colpita al capo da una manganellata sarebbero “il risultato di un attacco informatico al suo telefonino”. Negim Abdolmaleki invece avrebbe bevuto alcool avvelenato.

Ali Salehi, procuratore del tribunale rivoluzionario di Teheran,  ha comunicato che 315 persone sono sotto processo nella sola capitale per aver partecipato alle proteste per la morte di Mahsa Amini, la donna di 22 anni di origine curda arrestata il 13 settembre dalla polizia per la “prevenzione del vizio e la proliferazione della virtù”. Quattro rischiano la pena di morte per “muharebeh”, ossia “uso di armi per minare la sicurezza e per creare panico nella società”. Hussein Fazeli, capo del dipartimento provinciale della giustizia di Alborz, una provincia a ovest di Teheran, ha fatto sapere di aver messo sotto inchiesta 201 persone che hanno partecipato alle manifestazioni contro il regime e che a suo dire “alcuni individui hanno avuto contatti con servizi segreti stranieri”.  Gli arrestati sarebbero oltre 14 mila. Fra loro la videoblogger romana Alessia Piperno, 30 anni, il cui caso è seguito dal ministro degli esteri Antonio Tajani “con il massimo impegno e con grande determinazione”.

Il fumo che si è sprigionato da un incendio ha ucciso quattro detenuti e ne ha feriti sessanta. Le fiamme sono divampate nella serata di sabato 15 ottobre nel carcere dei dissidenti, la tristemente nota fortezza carceraria di Evin nella quale sarebbe rinchiusa anche la blogger italiana Alessia Piperno assieme a centinaia di arrestati per le manifestazioni di solidarietà con Mahsa Amini. Sarebbero incolumi il regista Jafar Panahi e il leader riformista Mostafa Tajzadeh. Secondo l’agenzia “Irna” le fiamme hanno investito la sezione numero 7 durante contri fra i detenuti e i secondini. I rivoltosi avrebbero alimentato le fiamme in un deposito di vestiti. Gli ammutinati sono stati separati dagli altri detenuti. Alcuni testimoni hanno riferito di aver sentito colpi di arma da fuoco e diverse esplosioni. Davanti a Evin si sono radunate decine di familiari dei carcerati. Per le autorità iraniane si “è trattato solo di una rissa tra un certo numero di prigionieri condannati per reati finanziari e furto”.

I lavoratori del settore petrolchimico ad Asaluyeh e quelli delle raffinerie di petrolio ad Abadan e Bushehr hanno continuato lo sciopero. Dall’inizio dell’astensione dal lavoro, le forze dell’ordine hanno attaccato il raduno di Asaluyeh e i dormitori e arrestato più di 30 persone.  Il portavoce del ministero degli esteri Nasser Kanaani ha definito dichiarazione di un politico “esausto” la condanna del “governo iraniano opprimente” pronunciata dal presidente statunitense Joe Biden. Fonti di intelligence hanno rivelato alla “Washington Post” che l’Iran ha acceso il semaforo verde alla fornitura alla Russia di decine di droni da attacco e, per la prima volta, anche di missili balistici a corto raggio destinati a rinforzare gli arsenali dell’attacco all’Ucraina.

Donne, vita e libertà”, ”morte al dittatore”. In Iran sembra sia tornata “l’onda verde” di contestazione del 2009. Mahsa Amini, originaria di Saqqez, una città della zona curda, era stata arrestata nella metropolitana della capitale all’uscita “Shahid Haghani” . “La portiamo – hanno detto gli agenti al fratello Kiarash – a fare una lezione di moralità”. E’ morta venerdì 16 settembre, dopo tre giorni di coma. Le manifestazioni di protesta sono dilagate in tutto il Paese degli ayatollah, nelle strade, nei bazar, nelle università e nelle stazioni della metropolitana. Quarantuno persone sarebbero state fulminate dalle forze dell’ordine  nella sola provincia del Sistan Baluchistan. Protestavano per lo stupro di una giovane di 15 anni abusata dal capo della polizia della città portuale di Chabahar. Nella capitale iraniana è stata fermata anche Donya Rad “colpevole” di non aver indossato il velo mentre sorseggiava  un caffè con un’amica, anch’essa a capo scoperto. Il caso è scoppiato dopo la diffusione on-line di una foto del pranzo. Le forze di sicurezza sono intervenute, contattando Donya per chiederle spiegazioni. “Dopo alcune ore senza notizie – ha denunciato la sorella – Donya mi ha detto in una breve telefonata di essere stata trasferita nella prigione di Evin”. Il ministero degli esteri iraniano ha comunicato l’arresto di 9 stranieri provenienti da diversi paesi europei, inclusa l’Italia, con l’accusa di essere coinvolti o di essere stati nei luoghi delle proteste. L’organizzazione curda per i diritti umani Hengaw ha riferito che le forze di sicurezza hanno sparato. nella notte fra giovedì 22 e venerdì 23  settembre, con «armi semiautomatiche » contro i manifestanti a Oshnaviyeh (nel nord-ovest). Nelle altre città la polizia ha reagito con cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e anche colpi di arma da fuoco contro i dimostranti che ogni sera scendono in piazza, bloccano il traffico e incendiano cassonetti. Moltissime donne si sono tolte il velo e lo hanno bruciato oppure si sono tagliate la chioma come si usa nel Kurdistan iraniano in segno di lutto. Il presidente Ebrahim Raisi ha accusato l’Occidente di avere “doppi standard” sui diritti delle donne, ma ha promesso un’inchiesta e ha definito Mahsa “una figlia”. Un consigliere della Guida Suprema del Paese Ali Khamenei ha assicurato alla famiglia di Mahsa che il Grande Ayatollah è “addolorato” per l’accaduto. “Ho partecipato ai raduni, perché mi ricordo le vessazioni che da adolescente ho subito quando la polizia ci fermava per strada solo per aver calzato delle scarpe rosse o per avere indossato male l’hijab – ha raccontato all’ANSA Mahvash, una donna di 55 anni – e non voglio che mia figlia soffra lo stesso”. L’hashtag persiano #MahsaAmini ha raggiunto oltre 3 milioni di citazioni su Twitter.

Dai tempi dell’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti il regime si è rinchiuso su sé stesso. Questa all’epoca era la valutazione di Mahmood Amiry Moghaddam, capo di “Iran Human Rights”, il sito che teneva una minuziosa e documentata contabilità delle esecuzioni nella Repubblica Islamica. L’ex presidente riformista Mohammed Khatami aveva proposto poco prima una “riconciliazione nazionale” che cancellasse il ricordo della sanguinosa repressione dell’”onda verde”, i moti di piazza  del 2009 scatenati dal sospetto che solo i brogli avessero consentito la conferma di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza del Paese.

La guida suprema Ali Khamenei aveva detto chiaro e tondo che la proposta di una pace duratura fra conservatori e riformisti “è senza senso” perché “la gente è contro coloro che sono scesi in piazza nel giorno dell’Ashura (del 2009) e non si riconcilierà con quelle persone”. Pietra tombale. All’epoca al vertice della teocrazia c’erano diverse fazioni. La Guida scelse di compattare l’establishment ed è andato avanti per quella strada”.

In uno dei suoi ultimi discorsi il potente ex presidente Hashemi Rafsanjani si era avventurato a parlare della successione a Khamenei. “Quando è morto – annotava il capofila di “Iran Human Rights”– i suoi seguaci più potenti sono stati rimossi. Ed è rimasta una traccia del dissenso fra i due perfino al funerale di Rafsanjani. Khamenei ha condotto la preghiera islamica, ma poi nel sermone di ricordo del defunto ha saltato una delle frasi che si pronunciano sempre, quella nella quale si riconosce allo scomparso di non aver mai commesso cattive azioni. Non solo. Nel suo indirizzo iniziale La Guida non si è rivolta al suo ormai ex avversario usando il titolo di ayatollah,  ma quello di hojatoleslam, il grado inferiore nella scala gerarchica”.