Di Lorenzo Bianchi

Appena due giorni dopo l’anniversario dell’uccisione di Mahsa Jina Amini il presidente americano Joe Biden ha deciso di rimpinguare le casse degli ayatollah con sei miliardi dollari in cambio del rilascio di cinque cittadini statunitensi. A Teheran torneranno cinque iraniani. “Tutti colpevoli di reati minori” ha tenuto a precisare l’amministrazione di Washington. Si riuniranno ai loro congiunti Siamak Namazi, Morad Tahbaz, Emad Sharghi e altri due connazionali. Tutti avevano la doppia cittadinanza, ma Teheran non riconosce quella statunitense e li considerava cittadini iraniani a tutti gli effetti. Namazi è un imprenditore. Fu condannato nel 2015. Tahbaz, che è anche suddito di Sua Maestà Britannica, è stato accusato di aver “cospirato con gli Usa”. I due, che hanno chiesto e ottenuto l’anonimato, sono una ricercatrice e un altro uomo d’affari. Potranno tornare in Iran Reza Sarhangpour e Kambiz Attar Kashani, entrambi imputati di aver violato le sanzioni imposte alla teocrazia dagli Stati Uniti. Della cinquina che potrà tornare in Iran faranno parte anche Kaveh Lotfolah Afrasiabi, sospettato di essere un agente degli ayatollah, Mehrdad Moein Ansari e Amin Hasanzadeh. Gli ultimi due avrebbero collaborato con il ministero della difesa di Teheran. Namazi ha ringraziato Biden “per aver considerato la vita dei cittadini americani al di sopra della politica”. L’amministrazione del Presidente americano ha spiegato che i fondi, arrivati all’Iran dalla Corea del sud per l’acquisto di petrolio con l’intermediazione del Qatar, potranno essere “usati solo per scopi umanitari”. Mentre decideva lo scambio Biden ha firmato nuove sanzioni a carico dell’ex presidente della teocrazia Mahmud Ahmadinejad e del dicastero dell’Intelligence di Teheran per la sparizione, 17 anni fa, dell’ex agente dello Fbi Bob Levinson.

Tre giorni prima dell’anniversario della morte di Mahsa Jina Amini, la giovane curda che fu arrestata dalla polizia religiosa, la Naja, il 13 settembre dell’anno scorso, perché dal velo islamico spuntava una ciocca dei suoi capelli , la teocrazia iraniana ha chiarito nel sangue le sue intenzioni sulla ricorrenza. Hamed Bagheri, un giovane, è morto in ospedale a Karaj, venti chilometri a ovest di Teheran. Invitava la gente a scendere in piazza. Gli agenti gli hanno sparato quattro proiettili. La versione ufficiale è che “deteneva armi da taglio”. La fonte della notizia è Fereshteh Rezaifar, un’attivista del collettivo “Donna, vita, libertà” di Roma.

La mattina del 16 settembre i Pasdaran della Rivoluzione hanno arrestato sulla soglia di casa a Saqqez Amjad Amini, il padre di Mahsa Jina. Secondo l’organizzazione non governativa “Iran Human Rights”, fondata e guidata da Mahmood Amiry Moghaddam, Amjad Amini è stato rilasciato “dopo poche ore”. Fereshteh Rezaifar, un’attivista del collettivo “Donna, vita, libertà” di Roma, ha aggiunto altri particolari: “In settimana era già stato convocato quattro volte dalla polizia, Gli hanno ordinato di annullare la cerimonia per la memoria di Mahsa Jina minacciando di arrestare anche Kiarash, l’altro figlio. Ma la famiglia non cede”. Le forze di sicurezza hanno bloccato l’accesso al cimitero di Aichi, il luogo nel quale è sepolta Mahsa Jina. Nel Kurdistan iraniano la polizia ha chiesto ai cittadini di non manifestare. Se non obbediranno, ha assicurato, saranno affrontati con armi da fuoco. Non erano parole al vento. Fardin Jafari si era avvicinato al camposanto di Aichi ed è stato colpito dagli agenti. E’ stato ricoverato in ospedale in condizioni critiche.

Nella capitale la polizia ha sparato contro i dimostranti vicino all’Università di Teheran e nella centrale piazza Azadi. Le forze dell’ordine hanno chiuso gli accessi ai cimiteri nei quali sono sepolti i caduti dopo la morte di Mahsa Amini. Gli iscritti alle Università Beheshti, Elm-o-Sanat e Amir Kabir hanno affidato a comunicati i loro no alla teocrazia. Da diversi cavalcavia penzolano striscioni che ricordano la fine di Mahsa Jina e in molti quartieri sui muri delle case sono apparse scritte di protesta. Sette detenute nel carcere di massima di sicurezza di Evin, quello nel quale vengono rinchiusi i dissidenti politici, hanno bruciato il loro velo e tenuto un sit in gridando “donna. Vita e libertà”. Le prigioniere hanno voluto rendere pubblici i loro nomi. Sono Narges Mohammadi, Sepideh Gholian, Azadeh Abedini, Golrokh Iraee, Shakila Monfared, Mahboubeh Rezai e Vida Rabbani. Gli agenti hanno imbrattato con la vernice nera il sepolcro di Nina Shakarami, 16 anni, morta durante le manifestazioni del 2022 a Teheran . L’agenzia di attivisti per i diritti umani “Hrana” ha diffuso i numeri raccapriccianti della repressione nell’ultimo anno: 551 persone hanno perso la vita nelle proteste, tra i quali 68 minorenni. Gli arrestati sono circa 20 mila. Sette sono stati impiccati.

il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha annunciato nuove sanzioni che prendono di mira 29 persone e organizzazioni. Diciotto sono Pasdaran, e agenti delle forze dell’ordine. Uno dei destinatari é il capo dei penitenziari iraniani. Secondo l’agenzia di stampa “Nova”, sono stati sanzionati Alireza Abedinejad, amministratore delegato di “Douran Software Technologies”, e i media controllati dallo stato “Press Tv“, “Tasnim News Agency” e “Fars News”. Il decimo pacchetto di restrizioni dell’Unione Europea riguarderà invece il vice comandante in capo del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche nel “Quartier generale della sicurezza centrale dell’Imam Ali”, i comandanti della polizia delle province di Mazandaran e di Fars, il direttore della prigione di Kachui, le carceri di Sanandaj, Zahedan e Esfahan, l’agenzia di stampa dei Pasdaran “Tasnim News” e il Consiglio Supremo del Cyberspazio.

Secondo Fereshteh Rezaifar è stata imprigionata anche la madre di Kian Pirfalak, il bimbo di undici anni che fu ucciso nell’assalto al mercato di Izeh, capoluogo del Khūzestān. Il governo accusò l’Isis, ma per i militanti di “Donna, Vita e Libertà” furono gli agenti ad aprire il fuoco. “Di recente è stato ammazzato anche il cugino”, rincara Rezaifar. Le manette sono scattate anche ai polsi del padre di Mohammad Mehdi Karami, il 21enne giustiziato a gennaio per aver protestato a Karaj per la morte di Mahsa. Il genitore a dicembre denunciò che l’avvocato d’ufficio assegnato dal tribunale a pochi giorni dall’impiccagione di Karami ancora non aveva risposto alle sue chiamate e non stava seguendo il caso. Rezaifar non fa sconti neppure ai magistrati: “Nei processi spesso contestano reati mai commessi”. I parlamentari remano nella direzione indicata dagli ayatollah. “E’ di questi giorni – riferisce l’attivista – la legge che prevede fino a 10 anni di reclusione per le donne che non indossano il velo in pubblico. E’stato calcolato che se venisse applicata, la polizia morale – che è stata ripristinata, dopo una momentanea sospensione – dovrebbe arrestare circa 6mila persone al giorno”.

L’imam sunnita della moschea di Zahedan, capoluogo della provincia sudorientale del Sistan Balucistan, ha esplicitamente ricordato, durante la preghiera di venerdì 15 settembre, l’ondata di proteste per l’uccisione di Mahsa Jina Amini. Il suo sermone è stato censurato con un blocco temporaneo di internet, ma dopo la preghiera almeno un centinaio di persone ha marciato per le strade gridando “non dimenticheremo il massacro di Zahedan”, il “venerdì di sangue”. Il 30 settembre del 2022 divamparono in città proteste contro il governo centrale che portarono alla morte di 4 agenti e di un centinaio di manifestanti. Nell’ultima settimana circa 30 attivisti sono finiti in cella. Le porte del carcere si sono aperte anche per Armin Rostami, il fratello di Aida, la dottoressa uccisa a Teheran in dicembre perché si ostinava a curare i feriti delle dimostrazioni.

Nella capitale da diversi cavalcavia penzolano striscioni che ricordano la fine di Mahsa Jina e in molti quartieri sui muri delle case sono apparse scritte di protesta contro la teocrazia degli ayatollah. Nel Kurdistan iraniano la polizia ha chiesto ai cittadini di non manifestare minacciando di affrontarli con armi da fuoco. A Saqqez, il luogo di origine di Mahsa Jina Amini, gli alberghi negano le stanze a chi viene da fuori città. La tomba della giovane e il padre Amjad sono sottoposti a una vigilanza continua con le telecamere. Un altro padre per il quale sono scattate le manette è il genitore di Mohammad Mahdi Karami, impiccato in gennaio. La stessa sorte è toccata alla sorella e al marito di Shirin Alizadeh, uccisa l’anno scorso in ottobre.

Il governo britannico ha annunciato nuove sanzioni contro diversi funzionari iraniani, tra i quali il ministro della Cultura e il sindaco di Teheran. Le misure restrittive, decise in coordinamento con Stati Uniti, Canada e Australia, “si concentrano sui responsabili iraniani della preparazione e dell’applicazione della legge sull’uso obbligatorio dell’hijab (ndr. il velo)”.

Il 20 luglio la polizia religiosa era tornata sulle strade iraniane per registrare e arrestare le donne che non indossano correttamente il velo obbligatorio per legge dal 1979. Il compito di annunciare la notizia è stato affidato a Saeed Montazer al-Mahdi, capo della polizia del Paese. La decisione sarebbe stata adottata “su richiesta della popolazione e delle istituzioni per garantire la sicurezza pubblica e le fondamenta della famiglia”. Il giornale “Iran International”, rilanciato dall’attivista Masih Alinejad che ha un seguito di quasi 9 milioni di followers, ha pubblicato il video di una ragazza a capo scoperto braccata da una donna che indossa una tunica lunga fino ai piedi. L’anziana cerca di trascinarla verso una camionetta bianca, del tutto simile a quella sulla quale fu caricata Mahsa Jina Amini il 13 settembre del 2022. Nonostante le telecamere a riconoscimento facciale, le multe e gli arresti, la protesta è continuata anche con stratagemmi molto creativi. L’ultimo sono gli ululati notturni dalle terrazze o dalle case. Gli iraniani si sdraiano sul pavimento dei balconi o sotto le finestre delle loro abitazioni di notte e ululano. I paramilitari basiji hanno in dotazione termocamere che sono in grado di localizzare gli individui anche attraverso i muri. Sdraiarsi per terra è un tentativo un po’ artigianale di non essere facilmente localizzati.

l 29 maggio era cominciato a Teheran il processo a porte chiuse alla giornalista iraniana Elaheh Mohammadi, 36 anni, arrestata dopo che aveva seguito a Saqqez il funerale di Mahsa Amini. Elaheh Mohammadi lavora per il quotidiano riformista “Ham Mihan” ed è comparsa davanti alla sezione numero 15 del “Tribunale rivoluzionario” della capitale. La reporter è accusata di “collaborazione con il governo ostile degli Stati Uniti, collusione contro la sicurezza nazionale e propaganda contro il sistema”, accuse che potrebbero comportare la pena di morte in caso di condanna.

Il 30 maggio è stata processata anche la fotoreporter Niloufar Hamedi, dipendente del giornale “Shargh”, un altro organo di stampa critico nei confronti degli ayatollah, finita in cella per un reportage dall’ospedale nel quale era stata ricoverata Mahsa Amini dopo essere stata fermata. La giovane era in coma e intubata. Qualche giorno dopo la reporter pubblicò anche una foto dei genitori di Mahsa che si abbracciavano in un corridoio della struttura sanitaria dopo aver saputo che la figlia era morta. L’accusa della quale deve rispondere è “propaganda contro il sistema” e “collusione contro la sicurezza nazionale”. Secondo i familiari le due giornaliste hanno potuto incontrare i loro avvocati solo domenica 28 maggio.

Secondo Iran Human Rights l’8 maggio sono stati impiccati due uomini condannati per blasfemia. Il 6 maggio è stato giustiziato il dissidente Farajollah Habib Chaab, un cittadino svedese di origini iraniane accusato di un attentato dinamitardo che nel 2018 costò la vita a 25 persone fra soldati e civili durante una parata militare ad Ahwaz, nella provincia del Khūzestān. Stoccolma ha convocato l’ambasciatore della teocrazia e ha condannato la “punizione inumana e irreversibile”. Chaab, 50 anni, noto anche come Habib Asyud, dopo aver vissuto per dieci anni in Svezia fu rapito da agenti iraniani in Turchia nel 2020 e portato in Iran. Un mese dopo la Tv di stato “Irib” mandò in onda un video nel quale Chaab ammetteva di essere responsabile di azioni terroristiche e di aver collaborato con gli 007 sauditi. Il 21 marzo la Corte suprema del regime degli ayatollah ha confermato la condanna a morte. In gennaio è stato condotto al patibolo il britannico-iraniano Alireza Akbari, 61 anni, condannato per spionaggio per conto del Regno Unito. Una circostanza che Londra ha sempre negato. In un messaggio audio a “Bbc Persian” Akbari aveva affermato di essere stato torturato e costretto a confessare davanti alla telecamera crimini che non aveva commesso.

Le note attrici Baran Kosari. 37 anni, e Shaghayegh Dehghan, 44 anni, sono finite nel mirino delle autorità. Kosari sarebbe colpevole di aver partecipato a un funerale a capo scoperto. Dehghan non avrebbe indossato il velo islamico, l’hijab, in un bar. Nelle scorse settimane sono state denunciate per la stessa violazione anche le attrici Katayoun Riahi, Pantea Bahram, Afsaneh Baygan e Fatemeh Motamed-Aria. In aprile le autorità della Repubblica Islamica dell’Iran hanno affermato che avrebbero cominciato a usare nuove tecnologie per individuare le donne che violano la legge sul velo negli spazi pubblici.

Il 21 novembre del 2022 in una conferenza stampa Ehsan Hajsafi, 32 anni, capitano della nazionale di calcio iraniana e difensore dell’Aek di Atene, aveva annunciato che la sua squadra avrebbe espresso il suo dissenso contro il regime degli ayatollah. Qualche giorno prima la nota attrice Katayoun Riahi, 60 anni, era finita in cella per fatto “post provocatori sui social e su altri media”. In settembre aveva rilasciato un’intervista all’ “Iran International tv”, un’emittente con sede al Londra senza indossare il velo.

Nasrin Ghadri, 35 anni, studentessa dottoranda in filosofia a Teheran, era morta sabato 5 novembre come Mahsa Amini. Durante le manifestazioni del 4 novembre agenti delle forze di sicurezza l’hanno colpita alla testa con un manganello. Lunedì 7 novembre sono scesi in piazza gli abitanti di Marivan, la sua città di origine nel Kurdistan iraniano. I dimostranti hanno gridato “Morte a Khamenei (la guida suprema del Paese)”, hanno bloccato diverse strade e hanno accusato il governo di aver organizzato, alle prime luci del giorno, una frettolosa sepoltura della giovane. Gli agenti hanno reagito, come al solito, sparando sulla folla e ferendo 35 dimostranti. Il padre, come accadde per Mahsa Amini, sarebbe stato costretto a dichiarare pubblicamente che la figlia è deceduta per “intossicazione” o per “una malattia”. Secondo l’organizzazione non governativa “Iran Human Rights” venerdì 4 novembre gli studenti maschi dell’Università di Babol, nel nord del Paese e vicina al Mar Caspio, nella loro mensa hanno rimosso la barriera di separazione dalle colleghe. Nella stessa giornata nella città di Kash 16 dimostranti sono stati fulminati dalla polizia degli ayatollah.

Il regime teocratico continua a chiudersi a riccio. Duecentoventisette parlamentari su duecentonovanta hanno chiesto ai leader del regime e ai magistrati di applicare la pena di morte contro i “mohareb” (nemici di Dio). “Chiediamo al governo – hanno scritto – di affrontare con fermezza gli autori di questi crimini e tutti coloro che hanno incitato le rivolte, tra cui alcuni politici”. Le Guardie Rivoluzionarie iraniane hanno fermato tre squadre affiliate al gruppo dissidente Mojahedin-e-Khalq Organization (Mko), una compagine che la teocrazia accusa di terrorismo. Un comunicato citato dall’agenzia di stampa semiufficiale “Fars” attribuisce agli arrestati l’intento di condurre azioni di sabotaggio e attentati nelle province del Khūzestān, di Fars e di Isfahan. I Mojahedin progettavano di coinvolgere “rivoltosi” per attaccare lo stato e i centri di sicurezza e di polizia, per distruggere proprietà pubbliche e commettere assassinii. Le autorita’ iraniane hanno arrestato 26 “terroristi takfiri” (miscredenti) sunniti sospettati di essere coinvolti nell’attentato del 26 ottobre al mausoleo di Shah Cheragh a Shiraz, costato la vita ad almeno 13 persone. L’attacco al mausoleo, il sito sciita piu’ sacro nel sud dell’Iran, e’ stato rivendicato dall’Isis, il sedicente Califfato Islamico. L’autore, morto per le ferite riportate durante l’arresto, è stato identificato come Abu Aisha, di nazionalita’ tagika. Il coordinatore della cellula sarebbe un azero. L’afgano Mohammed Ramez Rashidi è sospettato di aver garantito “supporto operativo”.

Un fiume di folla si è riversato nel cimitero di Khorramabad, capoluogo del Lorestan, una provincia dell’Iran occidentale, per la funzione funebre che avrebbe dovuto onorare i 40 giorni dalla scomparsa di Nika Shakarami. Nika è stata dichiarata morta dopo dieci giorni di assoluto silenzio. Le forze di sicurezza hanno accolto i partecipanti al corteo a colpi di arma da fuoco. Nika aveva bruciato il suo velo. Da un certificato risulta che le sono state fatali diverse ferite provocate da un oggetto rigido. Per la Procura di Teheran invece si sarebbe tolta la vita lanciandosi nel vuoto da un edificio in costruzione. A Mahabad le piazze si sono riempite dopo che è stato fulminato un dimostrante. La Prefettura della città è stata incendiata.

Sui social è diventata virale l’immagine della donna dai lunghi capelli sciolti che alza le braccia al cielo stando in piedi sul tetto sul tetto di una vettura (nella foto), un’auto dell’immensa fila diretta al cimitero di Sakkez nel quale è stata sepolta Mahsa Amini, diecimila persone ha dovuto riconoscere perfino l’agenzia di stampa ufficiale “Irna”.  Il 30 ottobre si è intensificata la repressione da parte delle forze di sicurezza, in divisa e in borghese, dopo l’avvertimento rivolto ai manifestanti dal comandante delle Guardie Rivoluzionarie Hossein Salami che li aveva diffidati dal tornare in strada. Gli studenti della capitale Teheran, di Shiraz, di Babol, di Eslamshahr, di Sari, di Arak, di Qazvin, di Mashhad, di Parand, di Hamedan, di Khorramabad, di Ahvaz, di Zanjan e di Sanandaj hanno promosso nuove iniziative di protesta, durante le quali sono stati scanditi slogan contro la corruzione e la repressione. In alcuni video postati sui social media, si vedono le forze di sicurezza e in borghese sparare agli studenti con armi da fuoco, fucili a pallini e gas lacrimogeni, alla Shomal University di Teheran. A molti studenti è stato vietato l’ingresso negli atenei e nelle strutture annesse. Il 30 ottobre alcuni universitari sono stati aggrediti nei loro dormitori durante la notte con gas lacrimogeni e spari.

“Queste rivolte aprono la via al terrorismo”, ha sparato a zero il presidente iraniano Ebrahim Raisi.  “L’intenzione del nemico è quella di interrompere i progressi del Paese”, ha rincarato. Raisi ha immediatamente incassato la solidarietà di Vladimir Putin che si è dichiarato favorevole “ad aumentare la cooperazione nella lotta al terrorismo”. Javaid Rehman, il relatore speciale dell’Onu sui diritti umani in Iran ha denunciato la “brutalità” del regime di Teheran e ha chiesto la creazione di un “meccanismo internazionale” per indagare sulla morte di “almeno 250 persone”. Elnaz Rekabi, 33 anni, la campionessa di arrampicata libera che aveva partecipato ai campionati asiatici di Seul senza indossare il velo, ha dichiarato in pubblico che le era scivolato. Secondo la “Bbc” in lingua farsi è stata poi confinata agli arresti domiciliari. Il provvedimento sarebbe una forma di pressione sulla giovane perché rilasci una confessione forzata sulla sua presunta colpa. A questa opera di “convincimento” si sarebbe aggiunta la minaccia di porre sotto sequestro beni della sua famiglia per oltre 250 mila euro.

All’inizio del mese di novembre del 2022 due giovani donne erano state stritolate nel tritacarne della repressione. Sono Arnika Gahemmaghami, 17 anni, e la studentessa universitaria Negim Abdolmaleki, 21 anni, che, secondo la sua compagna di stanza, è deceduta dopo essere rientrata nel dormitorio delle iscritte allo stesso ateneo. In entrambi i casi l’agenzia di stampa “Tasnim”, propone ricostruzioni che discolpano le forze di sicurezza. Arnika Gahemmaghami sarebbe caduta da una finestra dopo dieci giorni di cure mediche. Le immagini scattate con i cellulare e condivise da Arnika sui social media nelle quali si vedeva che la giovane veniva colpita al capo da una manganellata sarebbero “il risultato di un attacco informatico al suo telefonino”. Negim Abdolmaleki invece avrebbe bevuto alcool avvelenato.

Nella serata di sabato 15 ottobre dell’anno scorso nella fortezza carceraria di Evin, è divampato un incendio che ha ucciso quattro detenuti. Sarebbero incolumi il regista Jafar Panahi e il leader riformista Mostafa Tajzadeh. Secondo l’agenzia “Irna” le fiamme hanno investito la sezione numero 7 durante scontri fra i carcerati e i secondini. I rivoltosi avrebbero alimentato il fuoco in un deposito di vestiti. Gli ammutinati sono stati separati dagli altri prigionieri. Alcuni testimoni hanno riferito di aver sentito colpi di arma da fuoco e diverse esplosioni. Davanti a Evin si sono radunate decine di familiari. Per le autorità iraniane si “è trattato solo di una rissa tra un certo numero di condannati per reati finanziari e per furto”.

Mahsa Amini, era stata arrestata nella metropolitana della capitale all’uscita “Shahid Haghani” . “La portiamo – hanno detto gli agenti al fratello Kiarash – a fare una lezione di moralità”. E’ morta dopo tre giorni di coma. Il 20 settembre dell’anno scorso avrebbe  compiuto 22 anni. Le manifestazioni di protesta erano dilagate in tutto il Paese degli ayatollah, nelle strade, nei bazar, nelle università e nelle stazioni della metropolitana. Quarantuno persone sarebbero state fulminate dalle forze dell’ordine nella sola provincia del Sistan Baluchistan. Protestavano per lo stupro di una giovane di 15 anni abusata dal capo della polizia della città portuale di Chabahar. Nella capitale iraniana è stata fermata anche Donya Rad “colpevole” di non aver indossato il velo mentre sorseggiava un caffè con un’amica, anch’essa a capo scoperto. Il caso è scoppiato dopo la diffusione on-line di una foto del pranzo. Le forze di sicurezza sono intervenute, contattando Donya per chiederle spiegazioni. “Dopo alcune ore senza notizie – ha denunciato la sorella – Donya mi ha detto in una breve telefonata di essere stata trasferita nella prigione di Evin”. Il ministero degli esteri iraniano ha comunicato l’arresto di 9 stranieri provenienti da diversi paesi europei, inclusa l’Italia, con l’accusa di essere coinvolti o di essere stati nei luoghi delle proteste. L’organizzazione curda per i diritti umani Hengaw ha riferito che le forze di sicurezza hanno sparato nella notte fra giovedì 22 e venerdì 23 settembre, con armi semiautomatiche contro i manifestanti a Oshnaviyeh (nel nord-ovest).

Moltissime donne si sono tolte il velo e lo hanno bruciato oppure si sono tagliate la chioma come si usa nel Kurdistan iraniano in segno di lutto. Il presidente Ebrahim Raisi ha accusato l’Occidente di avere “doppi standard” sui diritti delle donne, ma ha promesso un’inchiesta e ha definito Mahsa “una figlia”. Un consigliere della Guida Suprema del Paese Ali Khamenei ha assicurato alla famiglia di Mahsa che il Grande Ayatollah è “addolorato” per l’accaduto. L’hashtag #MahsaAmini ha raggiunto oltre 3 milioni di citazioni su Twitter.