Di Lorenzo Bianchi

Dopo gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Sudan ora anche il Marocco avvia il processo di pace  con Israele. L’annuncio è arrivato con il solito tweet del presidente americano Donald Trump. In cambio gli Stati Uniti riconoscono la sovranità di Rabat sull’ex Sahara occidentale spagnolo, uno schiaffo in pieno viso ai saharawi, la popolazione autoctona che dal 1966 attende un referendum sull’autodeterminazione auspicato anche dalle Nazioni Unite.  Per il premier israeliano Benjamin Netanyahu “la luce della pace non è mai stata più brillante di oggi in Medio Oriente”. Il capo dell’esecutivo di Gerusalemme ha preannunciato legami completi e voli diretti. Per il monarca marocchino Mohammed VI quella di Trump è “una presa di posizione storica”. Il re ha assicurato al presidente palestinese Abu Mazen che non è in discussione “l’impegno del suo Paese sul dossier palestinese” a favore della nascita di due stati sulla base di un negoziato con gli israeliani.

Mohammed Salem Ould Salek, ministro degli esteri della Repubblica araba democratica Saharawi, autoproclamata dal fronte Polisario nel 1976, annuncia che “i combattimenti continueranno fino al ritiro totale delle truppe di occupazione marocchine”(nella foto una manifestazione del fronte Polisario). La decisione degli Usa, rincara, “è non valida”. Finora era in vigore un sorta di tregua che è stata interrotta nelle scorse settimane con l’intervento delle forze armate di Rabat per riaprire il collegamento stradale fra il Marocco e la Mauritania bloccato dal Polisario per oltre un mese. Il premier algerino Abdelaziz Djerad ha denunciato “manovre straniere contro la stabilità del Paese” e la volontà di portare “l’entità israeliana e sionista alle nostre frontiere”. Un comunicato del ministero degli esteri di Algeri ribadisce che il conflitto può essere risolto solo “attraverso l’esercizio autentico del popolo saharawi  del proprio diritto inalienabile all’autodeterminazione e all’indipendenza”. L’intesa  non piace anche alla Turchia, all’Iran ai palestinesi di Gaza (Hamas e Jihad islamica) e alla Russia. Per il viceministro degli esteri Mikhail Bogdanov “è una decisione unilaterale che va completamente al di fuori del quadro del diritto internazionale”.

 L’accordo con il Sudan era stato formalizzato il 23 ottobre con il solito collegamento telefonico fra Donald Trump, Netanyahu, il presidente del Consiglio militare per la transizione del Sudan Abddel Fattah al Burhan e il premier Abdallah Hamdok, l’esponente politico più perplesso sull’intesa. Il Sudan aveva incassato la rimozione dalla lista statunitense degli sponsor del terrorismo. Nei giorni precedenti Sadiq al Mahdi, leader del National Umma Party, di orientamento islamista, aveva minacciato di abbandonare la coalizione che appoggia Hamdok, se l’accordo non fosse stato ratificato dal Consiglio legislativo. Una preoccupante “promessa” di instabilità perché il Consiglio sarà eletto solo nel 2022. Il Sudan, 40 milioni di abitanti, nel 2019 era stato squassato da imponenti proteste innescate dalla decisione di triplicare il prezzo del pane. In luglio la rivolta aveva segnato la fine del dominio trentennale di Omar al Bashir. Secondo l’Onu questa estate un quarto della popolazione aveva dovuto affrontare una gravissima carestia. Israele aveva garantito una fornitura di grano per 4,2 milioni di euro, pari al consumo del Paese africano per oltre due anni. In cambio Gerusalemme aveva ottenuto il rimpatrio di decine di migliaia di immigrati clandestini sudanesi. Agli Emirati Arabi Uniti era stata prospettata anche la possibilità di ricevere i sofisticatissimi velivoli da guerra F 35, i caccia “invisibili”.

Trump prevede che al “patto di Abramo” assieme ad altri quattro Stati si aggiunga anche l’Arabia Saudita. Secondo il Wall Street Journal il re Salman, 84 anni, convalescente per un recente intervento chirurgico, fino all’ultimo è stato tenuto all’oscuro del negoziato con gli Stati del Golfo Persico gestito in prima persona dal principe ereditario Mohammed bin Salman, più conosciuto con l’acronimo Mbs. Informato dell’intesa, il monarca avrebbe avuto una reazione “furiosa”. Di sicuro Salman non condivide gli entusiasmi del figlio per le possibilità di collaborazione con Israele nel settore della sicurezza informatica e delle tecnologie avanzate, risorse che potrebbero innervare lo sviluppo di Neom, la città saudita dei robot in costruzione sul Mar Rosso. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha appoggiato senza riserve le trattative del Bahrein. Per Hamas, il movimento collegato ai Fratelli Musulmani che governa la Striscia di Gaza, l’intesa con l’emirato è  stata “un’aggressione”. Con le stesse parole il 14 agosto fu accolto l’accordo fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (in sigla inglese Uae).

In cambio Abu Dhabi sostenne di aver ottenuto che Benjamin Netanyahu, detto “Bibi”, “sospendesse ” l’annessione dei territori palestinesi della Cisgiordania e della Valle del Giordano, un’espansione  che aveva rinviato a data da destinarsi già all’inizio di luglio.  Nabil Abu Rudeinah, un portavoce del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (in sigla Anp) Abu Mazen, aveva definito la decisione degli Emirati Arabi Uniti “un tradimento”. Ismail Haniyeh, il leader di Hamas a Gaza, con una telefonata al presidente dell’Anp aveva dato la sua disponibilità per “azioni congiunte contro ogni accordo unilaterale che ha come obiettivo la liquidazione dei nostri diritti inalienabili”.  Il 14 agosto dopo le preghiere del venerdì centinaia di persone avevano dato vita a manifestazioni di protesta sia a Ramallah sia a Gaza. Nella capitale della Cisgiordania furono bruciate bandiere degli Emirati Arabi Uniti e del principe ereditario Mohammed bin Zayed. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan attaccò senza esitazioni: “Non lasceremo mai che La Palestina diventi un boccone facile da ingoiare”.

“Abbiamo rotto il ghiaccio”, si era compiaciuto Donald Trunp. Per il presidente statunitense l’annessione dei territori palestinesi occupati nella Cisgiordania ora è “una questione fuori dal tavolo”. Il primo ministro israeliano lo ha contraddetto. Per lui l’estensione della sovranità di Gerusalemme sulle colonie prevista da una sua legge del 2017 è solo “temporaneamente sospesa”.  In giugno la Corte Suprema l’ha bocciata. L’annessione era prevista per l’area C, una fascia di territorio che comprende,secondo gli accordi di pace del 1993 ormai caduti nel dimenticatoio, la stragrande maggioranza delle colonie israeliane in Cisgiordania e la quasi totalità della Valle del Giordano esclusa Gerico. I territori palestinesi furono occupati al termine del conflitto del 1967, la “guerra dei 6 giorni”. Negli anni Israele ha realizzato insediamenti nei quali ora vivono  circa 600 mila persone. Secondo “Palestine Monitor” 450 mila sono  in 132 colonie e in 124 piccoli avamposti. Altri 215 mila abitano a Gerusalemme est, la parte orientale della Città Santa che i palestinesi rivendicano come loro capitale. Agli ebrei che vivono nei territori palestinesi occupati il governo israeliano fornisce tutti i servizi essenziali, dalla corrente elettrica alle vie di comunicazione autonome. Il piano di Trump, il presidente statunitense che per la prima volta ha riconosciuto Gerusalemme come capitale dello stato ebraico, assegnerebbe alle colonie anche fasce di sicurezza aggiuntive. Sarebbe la morte definitiva della soluzione “Due popoli, due stati”, perseguita dall’Unione Europea, dall’Onu, dalla Russia e dagli stessi Stati Uniti prima dell’era Trump. Il presidente americano compenserebbe la perdita di territorio con un pacchetto di aiuti che vale 50 miliardi di dollari in dieci anni. L’offerta è già stata respinta da Abu Mazen.

I vertici dell’intelligence e delle Forze israeliane di Difesa sono contrari. Secondo il settimanale ”L’Espresso” l’Associazione “Comandanti per la sicurezza di Israele”, alla quale sono iscritti ex generali ed ex uomini di punta dei servizi segreti e della polizia, calcola che annettere l’area C e trasformare circa 300 mila palestinesi in residenti permanenti costerebbe 14 miliardi e mezzo di dollari all’anno. Se poi non venisse costruita una nuova barriera di separazione, le persone potrebbero circolare liberamente fino al cuore del Paese. In passato Israele aveva già inglobato altri territori occupati. Nel 1980 il governo conservatore di Menahem Begin ha proclamato l’annessione di Gerusalemme est e l’anno dopo quella delle alture del Golan siriano. I precedenti trattati di pace sono stati firmati dall’Egitto (1979) e dalla Giordania (1994). I diplomatici israeliani ed emiratini da tempo avevano messo a fuoco i dossier delle prime intese concrete. Sono i collegamenti aerei diretti (nel 2018 l’Arabia saudita ha autorizzato l’uso del suo spazio aereo) e la sicurezza (il Mossad, il controspionaggio estero israeliano, è stato il battistrada dell’accordo). In un momento di feroci contestazioni di piazza per la gestione del covid-19 il premier israeliano fa segnare punti a suo favore. Secondo il sito di “Yediot Ahronoth”, il più diffuso giornale israeliano, ha tenuto all’oscuro del negoziato i suoi alleati più importanti, il ministro della difesa Benni Gantz, il leader del “Partito Blu e bianco” che dovrebbe avvicendarlo alla guida del governo nel 2021, e il ministro degli esteri Gabi Ashkhenazi, braccio destro di Gantz. Il pretesto per non aggiornare il responsabile della difesa è stato che nei mesi scorsi il suo telefono sarebbe stato intercettato dagli iraniani.

Sullo sfondo continua ad agitarsi lo spettro dei tre processi che pendono sulla testa di Netanyahu. I suoi avvocati hanno ottenuto che slittino al gennaio del 2021. Da allora si procederà con tre udienze a settimana. Il primo dossier che verrà esaminato, contraddistinto dal numero 4000,  sarà quello sui rapporti fra Netanyahu e il magnate delle telecomunicazioni Shaul Elovitch, titolare della compagnia telefonica Bezeq e del sito di informazioni “Walla”.