L’impegno nelle canzoni italiane, sostiene Claudio Lolli, maestro indiscusso del genere, è una questione di decadi. Gli esempi sono calzanti: negli anni Sessanta Lucio Battisti cantava l’amore. Nei ’70 frotte di cantautori aprirono le porte alla politica. Gli anni Ottanta furono di sfogo, con le fragole di Luca Carboni, la Coca Cola di Vasco, la mamma di Bennato. Nei ’90 – da Jovanotti ai Litfiba – tornò imperiosa l’ansia di pensare. La leva cantautorale degli anni Zero di cui fa parte Brunori Sas – appena uscito con ‘A casa tutto bene‘ (2017, Picicca) – ci aveva riportati alla quotidianità.

La regola insomma funziona, e a dimostrarlo sono  le eccezioni. Vedi Carboni, che nel 2006 con ‘Musiche ribelli’ ha riletto il cantautorato impegnato. E vedi Brunori, con questo disco. Impegnato, sì, a modo suo. Nessun proclama politico, piuttosto una summa di dubbi e smarrimenti, figli di un’epoca ben descritta in Secondo me: “Secondo me c’hanno ragione anche i vegani / ci incazziamo per i cani abbandonati / e ci ingozziamo di insaccati”. Oppure: “Secondo me non è che devi esagerare con la lotta al capitale / ogni tanto ci puoi andare anche al centro commerciale / E lo so che è disgustoso, disonesto e criminale / ma d’estate si sta freschi e puoi sempre parcheggiare”. Verità quotidiane, che Brunori da sempre descrive. Il punto di rottura, allora è un altro. E’ che nel nostro quotidiano, ormai da troppo tempo, sono entrate a gamba tesa delle tensioni che credevamo cancellate. Come le differenze etniche, “il terrore di una guerra santa“, e di pari passo un nostro rinato “attaccamento alla vita”, naturale e un po’ pigro, da occidentali benpensanti.

Non si poteva non raccontarlo, questo mondo odierno, eppure finora nessuno lo aveva fatto. Non così bene, e con costrutto, come il Brunori di questo disco, che al quarto elimina per la prima volta la sua faccia dalle copertine e si libera così dagli obblighi di una descrizione sentimentale che lo aveva finora contraddistinto. Ne emerge un mondo in technicolor, modernissimo e già demodé, che parte dall’ingresso domestico e lì ritorna a breve, visto il debole che L’uomo nero ha per la casa “A casa nostra, a casa loro / Tutta una vita casa e lavoro”. E’ alle peripezie quotidiane di questo italiano medio – il personaggio che ha appeso la giacca ed il cappello sull’appendiabiti della copertina – che è dedicato questo disco. Ed è il suo pensiero – pigro, estremo e drammaticamente familiare – che ritroviamo brano dopo brano, nella descrizione di un’epoca liquida, sotto attacco, in cui a tremare sono le fondamenta della nostra società.

Ecco che allora, brano dopo brano, questo piccolo capolavoro a colori di Brunori ci consegna il suo disegno: sono Canzoni contro la paura le sue. Realizzate magistralmente, con il giusto cinismo, la giusta distanza, la giusta etica e il giusto cuore. Un quadro aggiornato in cui il mondo, finalmente, è visibile per intero. Con i suoi Don Abbondio affacciati alla finestra, a contare le macerie e dire ‘ora basta’, i menefreghisti (Sabato bestiale), gli uomini che uccidono ‘per troppo amore’ (Colpo di pistola), i giusti solo a parole. Categoria, quest’ultima, alla quale tutti noi corriamo il rischio di appartenere. Fosse soltanto per aver temuto almeno una volta per la nostra vita su un autobus, come Brunori, “solo perché un ragazzino arabo si è messo a pregare leggendo il Corano” (Lamezia Milano).

E dove sta la verità? Il cantautore, con onestà, si esime dal fissarla. Le sue “canzoni poco intelligenti”, però, una traccia almeno la lasciano. E’ affidata a un coro, come nelle tragedie greche. Dice: “Non sarò mai abbastanza cinico da smettere di credere che il mondo possa essere migliore di così / Ma non sarò mai neanche tanto stupido da credere che il mondo possa crescere / se non parto da me”. Su questa frase dovrebbe chiudersi il disco. Così non è, e questa è forse l’unica di un album che, oltre ai temi e alle parole, brilla anche per tutto il resto. Affidando il proprio racconto a una colonna sonora in cui le scelte vocali (ora più mature) di Dario Brunori si impreziosiscono degli arrangiamenti di una band che dire affiatata è ormai riduttivo. Costruita su due perni che da soli fanno la differenza: i fiati di Mirko Onofrio e le corde di Stefano Amato, tappeto rosso per le chitarre di Brunori, le tastiere di Dario Della Rossa, la batteria e la drum machine di Massimo Palermo e tutto il resto.

La Brunori Sas – ditta di mattoni nella vita vera – anche in questo ha sempre dimostrato una visione industriale: una squadra vincente e la migliore subfornitura. Vedi Taketo Gohara, maestro indiscusso di registrazione e missaggio, come in questo disco. Elementi che sommati fanno di ‘A casa tutto bene’ un disco impeccabile, dall’impatto sonoro potente e il carattere forte. Ben esemplificato da brani come ‘Lamezia Milano’, ‘L’uomo nero’ o ‘Canzoni contro la paura’. Indubbiamente uno dei migliori dischi del 2017. Dirlo a febbraio dà un certo sollievo.