L’auto era nuova. Decapottabile. Sportiva. Lui la guidava con scioltezza, sembrava esserci nato dentro. Appena comprata aveva subito allontanato il sedile dallo sterzo e reclinato lievemente lo schienale. Posizione perfetta per far scena. Un po’ meno per guidare, ma la figheria, lo si sa, è sacrificio e dedizione.

Quella mattina era uscito di casa di buon mattino. Venti minuti solo per scolpire i suoi capelli all’indietro con una brillantina d’altri tempi. Camicia dai bottoni aperti, catenina solo lievemente visibile, nulla di appariscente, non è certo un gretto. Lozione dopobarba comprata all’iper, ché già l’auto costa un casino, ma l’effetto – bisogna dare ragione alla vecchia réclame – è proprio da uomo che non deve chiedere mai. Stereo alto, impianto ben rodato: se eviti gli ultimi due punti di volume i subwoofer presi su internet reggono e non distorcono la voce.

L’uscita dal suo garage, primissimi colli, ex zona benissimo, oggi zona rampante, era stata praticamente perfetta: colpo di prima, guizzo agile in curva, un veloce sguardo allo specchietto, poi l’accelerata fino all’imbocco dei viali.

Ma i viali, stronzi e proletari, a quell’ora non distinguono tra bolidi e vecchie utilitarie. E poi ci si mettono gli autobus, le bici e un mucchio di altre cose. Così venti minuti dopo poteva ancora vedere dallo specchietto lo spicchio del balcone di casa sua, e salutarlo con un frizzante rosario di parolacce, maledicendo sindaco, istituzioni e automobilisti.

Fortuna che Gaia, la collega a cui aveva strappato il sì per il primo passaggio, sapeva benissimo la situazione del traffico. Le aveva scritto su Whatsapp, con stile e pochi punti esclamativi: di questo passo avrebbe raggiunto casa sua con almeno venti minuti di ritardo.

Quando finalmente arrivò erano già diventati 35. “Ma non sarebbe stato meglio il treno?“, l’apostrofò scettica, dopo essere montata in macchina. Lui sorrise con sorriso navigato:”Beh, il treno è affollato, e poi non è decapottabile”.

Dunque rimise in moto e partì di gran carriera, per percorrere nel più breve tempo possibile i 50 metri che lo separavano dal semaforo rosso.  Il traffico adesso scivolava spedito ma, c’era da ammetterlo, il profumo della brillantina di quando era uscito di casa, ormai se l’era ormai portato via il vento. Se voleva conquistarla davvero, se voleva averla del tutto, c’era bisogno di strapparle di dosso con un colpo da maestro quello sguardo annoiato.

Così, senza dirglielo, arrivati sul vialone mise la freccia e puntò dritto sulla Bologna-Padova. “Ma come”, disse lei, “prendi l’autostrada? Sono pochi chilometri!”. “Pochi chilometri che con questo arnesino qui percorreremo volando, e così recupereremo il tempo perduto, cherie”.

Lei lo guardò scettico, ma tant’è. Ecco, era fatta: sentiva la sua pelle a un passo, e poteva percepire la sua resistenza cedere. Un semplice strappo in auto, ma che auto!, alla giusta velocità, col sole e con la musica giusta, poi l’ingresso alla convention aziendale solo un minuto prima dell’inizio, a sedersi vicini con aria complice negli unici posti appaiati rimasti liberi, in fondo alla sala, dunque un invito a cena.

Si rilassò: a quell’ora la curva dello svincolo fluiva veloce e cedevole sotto alle gomme della sua decapottabile. Lui affondò la schiena nel sedile, piazzò la sinistra sullo sterzo, la destra sulle marce e con il piede diede ulteriore vigore all’andatura del mezzo.

Prese velocità: arrivò allo svincolo come un colpo di vento. Lei lo guardò livemente preoccupata. Lui sorrise. I suoi occhi dicevano rallenta. Lui invece accelerò. Lei schiuse la bocca, sorpresa. Lui sorrise. Sterzò a sinistra verso la corsia telepass. Era sui 70 chilometri orari. Diede un altro colpo di acceleratore e la sua autò muggì soddisfatta.

Ma ce l’hai il telepass?, dissero gli occhi di lei. Ma certo, amore, rispose il mento di lui. Ce l’ho qui, non vedi? E indicò il parabrezza della sua auto, giusto sotto al tettuccio, nell’insenatura che lega la carrozzeria al vetro dell’auto, dietro allo specchietto retrovisore. E’ lì che stanno di casa i Telepass.

Solo che quell’auto non aveva tetto. Era decapottabile, e lo specchietto retrovisore si trovava infatti più in basso, attaccato all’ultimo baluardo di carrozzeria, prima che il vetro digradasse direttamente nel cielo, privo di ostacoli e inutili orpelli metallici.

Successe tutto in un secondo: corrugò la fronte per ricordare, fece mente locale e lo ricordò lì, dove quell’inutile aggeggio era sempre stato, dietro allo specchietto della sua vecchia ma curatissima utilitaria che qualche giorno prima aveva ceduto al concessionario, in cambio di quella decapottabile bellissima, di terza mano ma ben tenuta, avuta in cambio di dieci stipendi messi gelosamente da parte e l’impegno in banca del suo monolocale.

Lì era rimasto, lo stronzo telepass. Abbandonato, al buio, solitario, senza sbarre da alzare, e così non potè fare il suo lavoro. E dovevate vederla, la potenza gioiosa con cui l’auto si impastò sulla transenna della Bologna-Padova, svincolo tangenziale. Stoica, la sbarra non si staccò: rimase immobile, semplicemente si piegò, poi elastica ritornò indietro, contribuendo a incastrare l’auto tra la barriera del gate di fianco e la colonnina dell’sos.

Incastonata con una perfezione tale che i vigili del fuoco impiegarono venti minuti buoni per disarcionarla, tra le risate e gli sguardi al proprietario che se ne stava seduto, immobile, a vedere il suo dopobarba colarsene via col sudore, come via se n’era andata lei: salita a bordo di un collega in Lancia Y, venuta a prenderla per poi ripartire, un attimo dopo aver assicurato il biglietto del casello dietro al parasole, nell’apposita asola, rallentato solo dai singhiozzi delle grasse risate che stavano facendosi alle spalle di quel piccolo uomo.