Mai sottovalutare la toponomastica, poiché talvolta regala storie straordinarie. Come quella di Alfonsina Morini – vedova Strada – titolare di un passaggio pedonale dentro al parco bolognese della Lunetta Gamberini. Un po’ poco per la sua storia, che starebbe benissimo in un film o una fiction. Ma d’altronde per tutta la vita – visti i tempi in cui è vissuta – Alfonsina si è dovuta guadagnare i suoi meriti sul campo. Uno su tutti: è stata la prima donna a prendere parte a un Giro d’Italia,

Nessun privilegio, anzi: Alfonsina fu osteggiata per tutta la carriera, ma aveva un difetto: per quanto piccola, esile, donna tra prestanti atleti uomini, era una ciclista sovrumana. Cresciuta in una numerosa e poverissima famiglia di Castelfranco Emilia, a dieci anni Alfonsina ricevette una bici scassatissima e sbilenca, ma miracolosamente funzionante.

Così prese a pedalare e, con tutta naturalezza e senza alcuna guida, si dimostrò presto un fenomeno. Ma un momento: alle donne della sua epoca non era consentito votare, figuriamoci fare sport agonistico. A lei che ci vollè provare lo stesso, sua madre disse: se vuoi continuare sposati e va’ via di casa. Così avrebbe fatto Alfonsina, a soli quattordici anni, sposando Luigi Strada e pretendendo come regalo di nozze una vera bici da corsa. Prima di allora, però, vi fu un tempo in cui – fingendo di andare a messa – partecipò a diverse gare amatoriali, fingendosi uomo grazie all’esile corporatura. Fu fortunata, comunque: suo marito, indubbiamente più illuminato per l’epoca, non solo credette in lei fin da subito, ma si dedicò alla sua bravura facendole da manager, e battagliando di città in città per ottenere l’iscrizione alle gare.

Non fu il solo, in ogni caso, perché per quanto donna Alfonsina, era innegabile, in bici correva come una dannata saetta. Finì così che molti l’aiutarono, architettando per lei un colpaccio: partecipare al celebre Giro di Lombardia, il cui regolamento non prevedeva che alla gara non potessero partecipare delle donne. Alfonsina si presentò, insistette, argomentò, e alla fine nessuno potè vietarle di correre. Partecipò due volte, e in entrambe affrontò critiche, parolacce, commenti beffardi. Cadde molto, e rovinosamente,  ma a differenza degli uomini capì subito che non poteva permettersi il ritiro. Fin troppo facile l’assioma: caduta lei, alla successiva donna che si fosse incaponita a partecipare a una gara da uomini avrebbero risposto che ci aveva già provato Alfonsina, fallendo poi miseramente.

Siamo al Giro di Lombardia del 1917: 45 partecipanti. Tra questi il grande Girardengo che arrivò decimo. Alfonsina fu 25esima, e dietro di lei venti ciclisti che manco finirono la corsa. Che stile! A fine competizione, Girardengo le porse pubblicamente il suo rispetto, e questo diede l’ultima spallata: ormai Alfonsina Strada era famosa. La ‘regina della pedivella’, così la soprannominavano i giornali, ma non per questo la sua vita agonistica fu più facile. Lo si vide quando sferrò l’attacco finale ai pregiudizi e decise di partecipare al Giro d’Italia. Era il 1924, l’anno in cui squadre e campioni disertarono, in protesta contro la richiesta di un obolo di iscrizione. In quel marasma l’organizzazione accettò la sua iscrizione, ma fu accusata di farlo a scopi promozionali, per dare lustro a un Giro sbiadito. Le polemiche furono feroci, e costarono ad Alfonsina il suo sesso: in tutte le comunicazioni venne presentata come Alfonsin.

Fu una gara pesantissima: dei novanta in partenza, giunsero alla fine soltanto in venti. Per lei fu un calvario: la sfida con i ciclisti, tutti uomini e di massimo livello, si rivelò più complicata del previsto. Ma lei lì, in fondo, non era mica una tipa a posto. Così si spinse al massimo, andò come un treno, si sfiancò ai limiti dell’umano, cadde millanta volte e altrettante venne rallentata da fan e curiosi. Finì comunque sempre le sue tappe. Tutte tranne una, L’Aquila-Perugia. Lì Alfonsina arrivò al traguardo fuori tempo massimo, e per i suoi detrattori fu una manna. “Vedete? Non è in grado, escludiamola”, dissero in coro. Ne nacque un dibattito, in cui giocò la notorietà raggiunta. Così le fu consentito di continuare, seppur a caro prezzo: le tolsero il numero dalla maglia. Non sarebbe più stata in gara.

Ma sai che problema? Ciò che Alfonsina Morini fece, in quel giro fece storia lo stesso. Dei 90 ciclisti partiti, difatti, ne arrivarono solo 30, e la trentesima fu Alfonsina, giunta al traguardo osannata dagli appassionati. Gliela fecero pagare, ovvio: non potè mai più iscriversi al Giro. Ma poco male. Alfonsina corse e vinse ancora molto nel mondo, difesa dai grandi campioni dell’epoca, e quando si ritirò dalle gare divenne addirittura una specie di guru, con Coppi, Bartali, Magni, Martini e ovviamente Girardengo furono ospiti fissi nella sua bottega di bici, a Milano, in cerca di consigli sui copertoni, sui rapporti, sui pedali dalla migliore ciclista mai vista in gara.

Su Alfonsina sono stati scritti alcuni libri, e a lei è dedicata una straordinaria canzone dei Têtes de Bois, Alfonsina e la bici, con la campionessa impersonata da Marherita Hack. Il brano è la prima traccia di uno straordinario album, interamente dedicato al fascino delle due ruote e di Alfonsina, testa dura che vent’anni prima del diritto di voto alle donne ha inventato lo sport agonistico femminile.