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Ero rimasto solo nel borgo abbandonato di Pentedattilo, ed era buio.  Intrapresi la strada del ritorno, voltandomi di tanto in tanto. Ero inquieto. Ripensavo a quel ragazzino, apparso dal nulla per farmi da guida e poi sparito allo stesso modo, e a quell’assurdità che mi aveva raccontato e che prima non avevo colto. Mia sorella e il suo ragazzo, che – maledetti loro! – vogliono sposarsi a Pentedattilo, hanno gli stessi nomi dei protagonisti di quella maledetta strage di Pasqua del 1600 che tutti in paese da quando eravamo arrivati non facevano altro  che ricordarci.

Maledissi ancora mia sorella, ad alta voce, per quella sua voglia irrefrenabile di venirsi a sposare proprio lì, “in questo buco di c”.  Sbam! Un colpo secco, alle mie spalle. Poi un rattle, come qualcosa di fragile che scivolava, rompendosi. Quindi il buio improvviso, totale, assoluto. Quasi urlai, e mi addossai al muro. Cercai di ragionare. Intanto il rattle di prima, altro non era che il mio telefono. Sobbalzatomi dalle mani, mi era caduto a terra e poi io, indietreggiando, evidentemente lo avevo pestato. Lo trovai a tastoni, infatti, e constatai che il vetro era andato in frantumi, o almeno così mi pareva al tatto. Altro non potevo fare: la luce del flash si era spenta, e lo schermo non rispondeva ai miei tocchi.

“Merda”, imprecai, e mi appoggiai con forza al muro, ma qualcosa alle mie spalle cedette. Volai per aria e sbattei la schiena. Come se non bastasse un pezzo di qualcosa mi si era conficcato nella scapola.  Urlai a perdifiato. Presi a contorcermi e provai a toccarmi la spalla. Avevo trovato il punto. C’era qualcosa, sì, sembrava un pezzo di legno, o di ferro. Il giubbotto era strappato, ne intuivo i lembi. Lo tolsi, sfregai la pelle della spalla con la mano e poi me la portai davanti agli occhi, ma era così buio che praticamente non la vedevo. Ne intuivo la forma, tutto qui. Cinque dita, come quelle di Pentedattilo.

Gridai ancora, ma stavolta era un lamento infantile, di paura. Ero ancora terra, nel buio, sentivo puzza di muffa e di polvere, ne intuivo la nuvola che evidentemente si era alzata alle mie spalle, in più tastando attorno intuivo umidità. La spalla mi faceva un male cane. Immaginavo mi fosse uscito del sangue. Oppure ero caduto su una pozza d’acqua stagnante, o di qualcosa, forse piscio di gatto.

Cercai di ragionare. Dovevo essere finito all’interno di una vecchia casa o di un magazzino. Mi ero poggiato con le spalle al muro, ma evidentemente non era un muro, piuttosto una porta di legno, che aveva ceduto all’indietro, disarcionandosi dai giunti. Volevo essere razionale, ma qualcosa sullo sfondo continuava a sfregare e mugolare e la cosa mi fece orrore puro. Mi rialzai di scatto allora, cercai un muro sul quale poggiarmi, lo trovai ma non era vuoto. C’era qualcosa di stranamente morbido e viscido sopra. Urlai ancora, e sullo sfondo qualcosa stavolta si mosse davvero, producendo un rumore secco.

Intuii un movimento veloce. “OH, CHE CAZZO SEI, un animale?” urlai sconnesso. Ma nulla più si mosse. “Un gatto o un cazzo di topo!”, dissi ad alta voce. Poi mi mossi frenetico. Dovevo andarmene via al più presto da quel buco, ma la porta che era caduta mi ostruiva il passaggio, e in ogni caso tra il buio di dentro e quello di fuori ormai la differenza era sottile.

Provai a muovermi mani in avanti, e a spingere. Se mi concentravo riuscivo ancora a intuire la strada sullo sfondo, lievemente più illuminata dal chiarore di quella notte senza luna. Ma se provavo a uscire, qualcosa mi tratteneva, ostruiva il passaggio. Mollai del tutto il giubbotto e mi lanciai mani avanti, incurante del dolore che sentivo. Forse stavo cercando di uscire da una finestra.

“Toc!, frh!, sch!” faceva qualcosa sullo sfondo. Un topo, sicuramente un topo. E non so se non fosse peggio lui di un fantasma. “Calma, adesso calma, devo provare a uscire da qui senza morire”. “Tutti qui muoiono” qualcuno sussurrò. Lo avevo sentito davvero? Ormai faticavo a distinguere le voci di dentro con i rumori di fuori, e i fruscii sullo sfondo con il pulsare delle mie tempie. Tentai: “Sei tu, ragazzino del cazzo? Se è uno scherzo io ti massacro”. “TUTTI QUI MUOIONO”.  Stavolta lo avevo sentito davvero. Un pazzo, un barbone che vive lì al buio, quel ragazzino, qualcuno era con me.

“Che vuoi?”, urlai. “Sto andando via, stai lì!” E spinsi davanti a me con tutte le mie forse, in quell’unico punto in cui intuivo lo spiraglio dell’aria aperta. Riuscii a scardinare qualcosa, qualcos’altro cadde e Ihhhh! Ihhhh! Ihhh!, fece qualcosa sulla mia testa. Sentivo sbattere sul soffitto, sui muri, addosso a me, dappertutto. Pipistrelli, animali, ragnatele! “ANDARE-VIA-DI-QUI-ADESSO” gridavo sconnesso mentre correvo al buio, sbattendo dappertutto. La strada si intuiva soltanto, ma in quel momento mi sembrava un tunnel di luce al quale affidarsi.

Così iniziai a correre, nonostante la gamba e la spalla doloranti. Caddi almeno un paio di volte, ma non smisi di correre. Avevo perso il cellulare, o quel che ne restava, e anche il giubbotto, ma questo era l’ultimo dei miei problemi. Correvo a perdifiato, mentre maledicevo quel maledetto ragazzino esangue che mi aveva fatto fare così tardi, per poi mollarmi solo in quel buio. Lo avrei cercato l’indomani, meditavo. Lo avrei cercato casa per casa, per chiedergli il conto del cellulare, del giubbotto e degli anni di vita persi.

Camminavo, ché di correre non c’era davvero più modo. Ero troppo dolorante, e ansimavo pesantemente. Raggiunsi quel tornante iniziale dove, poco prima, avevo trovato un’auto parcheggiata. Non c’era più. Quando la stradina del borgo finì e ritoccai l’asfalto mi sembrò come una terra promessa. Vedevo il chiosco sullo sfondo, ma era tutto spento, murato.
Mi fermai a rifiatare un poco sul ciglio del belvedere. Davanti a me niente. Solo i lampioni della valle, in basso e in lontananza, dove sarei finalmente arrivato seguendo la lingua d’asfalto. Mi voltai allora indietro, verso Pentedattilo. Le sue case si intuivano nel buio totale, ma fu lì che sobbalzai un’ultima volta, poiché in tutto quel nero pece di pietra e case, una fiammella fioca ora si intravedeva proprio dalle parti del campanile. Qualcosa di molto flebile. Sarebbe potuta essere una stella nel cielo retrostante, se non fosse stata così in basso. Oppure c’era davvero qualcuno con me in quella casa dove ero caduto. Quello stronzo ragazzino, sicuro. Si era nascosto da qualche parte a deridermi. O chissà chi altro.
Allora correre, subito, schizzare via, verso casa, cieco ai lamenti miei e del vento.

(9. Continua)