Fosse stata scritta da un italiano, uno spagnolo o un sudamericano questa “Rapsodia francese” sarebbe un capolavoro. L’elaborazione più ironica e visionaria di un’idea di Antoine Laurain che di per sé è geniale. C’è un gruppo musicale, negli anni Ottanta, fatto di ragazzini di varia estrazione con un unico sogno, quello di tutti: sfondare, fare successo, lasciare il segno. Solo che il riconoscimento non avviene, come in gran parte dei casi. E amen: è stato bello, ma ora ognuno vada per la propria strada. Così lo studente di medicina diventa un medico, quello di Belle Arti un artista contemporaneo – pure ben quotato, sebbene un po’ in crisi -, l’autore dei testi continua a fare l’antiquario, la bella e misteriosa cantante rileva l’hotel di famiglia, in provincia, e sparisce, il tastierista vive in Thailandia e il bassista – pensate che exploit – si ritrova ad essere il capo cattivissimo e rasato di un nuovo partito xenofobo di ultradestra.

Il tutto scorre lento e senza increspature, perlomeno finché non spunta fuori una lettera. E’ della Polydor, la major musicale: le Poste l’avevano persa dietro a un armadio e poi ritrovata per caso trent’anni dopo. Il contenuto dice: cari Hologrammes (è il nome della band): bello il brano che ci avete mandato, siete bravi, perché non prendiamo un appuntamento e vediamo che si può fare?

E così ciò che avrebbe causato gioia immensa in quegli anni, così tanti anni dopo si trasforma in un incubo. Capace di mostrare a tutti, al medico Alain Massoulier per primo, il chitarrista, cosa sarebbe potuto essere delle loro vite e cosa invece non è stato per colpa di banale disguido di consegna. E’ l’inizio della rapsodia, in cui Alain viene colto dalla febbre e passa le sue ore ad annusare in Rete e sugli elenchi telefonici le tracce dei suoi ex sodali, alla ricerca di quella registrazione e di quel brano che, chissà, forse può ancora valere un successo tardivo. La sua ricerca frenetica si intreccia con la storia di JBM, imprenditore di successo, una specie di Steve Jobs che nel mondo parallelo della finzione romanzesca aveva prima prodotto il disco degli Hologrammes (se l’intendeva con la cantante, Bérengère), poi precorso da pioniere lo sviluppo della Rete, fino a diventare l’imprenditore francese più ricco, più carismatico e al contempo più misterioso.

JBM ha una giovanissima e intelligente assistente, Aurore, e malsopporta la corte serratissima che le sta facendo una spin-doctor che, da quando l’ha visto in tv ospite di un talk show politico, si è convinta che sarebbe perfetto come prossimo candidato alle elezioni presidenziali. Questi gli ingredienti, che il crescere della rapsodia non può che rendere esplosivi. Poiché, spinti dal rancore disperato di Alain, i destini degli Hologrammes torneranno a intrecciarsi, e in mezzo crescerà a dismisura la storia personale di JBM, in movimento centrifugo verso la discesa in politica, che incontrerà di nuovo la mai dimenticata Bérengère e da lei otterrà – altro che lettera dimenticata! – una verità a dir poco scongolgente…

I singoli pezzi funzionano alla perfezione. Ma allora perché resta un dubbio di fondo? Si diceva della ‘francesità’ del romanzo: un limite nella misura in cui, pagina dopo pagina, pur col crescere d’intensità della storia resta intatta una certa nausea iniziale, una distanza altezzosa, una lieve repulsa per la decadenza umana naturalmente nascosta nelle storie da perdenti dei protagonisti. Elementi che a lungo andare, se non tagliati con i sogni o l’ironia, finiscono per appesantire il retrogusto di un romanzo che di per sé è invece ben pensato e costruito. Ci fosse stato un sudamericano dietro allo schermo del pc, chissà quanti risvolti assurdi e grotteschi ne sarebbero usciti fuori! Ma è inutile perdersi in considerazioni del genere: questa Rapsodia è francese, e anche se per alcuni non sarà lo stile ideale, merita eccome di essere letta.