Sono dodici le fermate di Egypt station, l’ultimo disco di inediti di Paul McCartney, 76 anni compiuti lo scorso giugno. Dodici canzoni tutte in corsa verso opposte destinazioni sonore, ma con un’unica stazione di partenza che ci riporta direttamente a cinquant’anni fa, in quell’aprile del 1970 in cui la corsa dei Beatles arrivò al suo epilogo. I quattro all’epoca erano già stati sul tetto di Abbey Road, e il tentativo di ritorno alle origini rock ‘n’ roll (Get back) era già fallito. I dissidi per le modifiche apportate ai suoi brani dal produttore statunitense Phil Spector avevano definitivamente rotto il legame di Paul con il gruppo: se Let it be, come si suol dire uscì ‘postumo’, l’8 maggio del 1970, è perché il 28enne sir Paul giusto un mese prima, il 17 aprile, aveva dato alle stampe il suo omonimo disco solista, McCartney. Registrato privatamente in casa tra fine ’69 e i primi del ’70, e suonato tutto da solo, strumento dopo strumento, con un registratore portatile e la sua bocca a fare da batterista quando le mani del bassista non arrivano a tanto.

Quel disco è una pietra miliare e andrebbe lasciato dov’è, certo. Ma se c’entra con Egypt Station è perché – pur con non paragonabili differenze d’ispirazione – a quelle sessioni private Macca sembra essere tornato per questo 18esimo album da solista. Una nuova operazione ‘Get back’, nel tentativo di guardare dentro e non farsi influenzare dall’esterno. Ne è simbolo una rima sonora, bellissima:  mezzo secolo fa quel McCartney semi-clandestino si mimava la batteria a voce e riproduceva la grancassa picchiettando su dei libri perché quelli erano i mezzi che aveva, non potendo più contare sulla band e sui suoi produttori. Oggi McCartney potrebbe tutto, ma in ‘Happy with you‘ risfodera un “tkt-tkt-tkt-tshhh” a bocca, ancora una volta, per mimare quel batterista immaginario, lo stesso di That would be something, quasi mezzo secolo dopo.

Poesia pura, e dice il falso chi sostiene che Egypt station non sia un disco ispirato. Non all’altezza del McCartney dei Beatles? Beh, ovvio: vostro nonno saprebbe correre oggi come a vent’anni? E magari, se potesse, non ne avrebbe voglia: che senso avrebbe cristallizzare la tua vita a quei dieci anni nei quali hai contribuito a cambiare per sempre la musica del mondo? Eppure Paul è ancora Paul. Torna forte, più che in New o in certi dischi dei Wings. Lo si legge nelle poesie di basso e pianoforte che sa ancora regalare (I don’t know), in quel suo tipico binomio di arpeggi e piede pestato (Happy with you) e in certe soluzioni melodiche inattese, superbi strappi di stile (come in Despite Repeated Warnings) che può permettersi solo un Beatles.

Un disco ispirato dunque, sì. Legato da mille fili con il passato (Do it now, People want peace, I don’t know o il medley Hunt you down/naked/C-Link lo dimostrano in molti passaggi), ma proiettato irrimediabilmente verso il futuro. E cosa pretendevamo, poi? Chiedete a McCartney di non sperimentare e lo avrete ucciso. Così vanno letti anche i passaggi più moderni di questo disco, come il singolo Come on to me, per molti non all’altezza, la poppissima Fuh-you o l’eclettica Back in Brazil. Che parte dai fringuelli di Blackbird ma è solo per spiccare il volo, lanciata a bomba verso lidi mai visti. Get back insegna che se si guarda al passato è solo per voltare pagina.

Altrimenti che senso avrebbe?