L’arrivo dell’intera discografia di Lucio Battisti sulle principali piattaforme digitali, dopo una lunga assenza e varie battaglie legali, mi concede finalmente l’occasione di fare pace con le mie idiosincrasie. Partivo da preconcetti, lo ammetto. E li ho coccolati, accresciuti, radicalizzati nel tempo. Ho fatto sì che si cristallizzassero anche se una diversa convinzione, segreta, era nel frattempo maturata dentro di me. Ecco ora posso dire che sbagl…
No, non ci riesco. Io odio Battisti. L’ho sempre odiato. Ed è un odio ipermetrope, altro che cieco! Sorretto da motivazioni concrete che ho affastellato negli anni, da tesi su tesi che (pacatamente e con il massimo rispetto per la persona e i suoi tanti fan, chiariamo) hanno portato in modo pacifico ma incontrovertibile acqua al mio mulino.
Perché lo odio? Oddio, non saprei da dove incominciare. Molti hanno creduto che si trattasse di una banale quanto scontata contrapposizione generazionale. I miei genitori, cosa lo dico a fare, adorano Battisti. In casa lo abbiamo sempre ascoltato, e mio padre milioni di volte lo ha suonato alla chitarra, urlando nei punti giusti e imitando il suo falsetto. Sarà questo, direte voi. No, tant’è che potrei fare oggi una chilometrica lista di musiche generazionali di mio padre e mia madre che io amo e che hanno ormai radicato la loro presenza nella mia hall of fame.
Allora è colpa della politica, si dirà. Ma no, cosa c’entra! Per quante volte ho infatti difeso a spada tratta una netta e incontrovertibile distinzione tra l’uomo e l’artista, tra la persona e le sue opere? Quanti miti si appoggiano inspiegabilmente su persone mediocri? Questo però a mio avviso non può rendere una canzone meno orecchiabile, un’armonia meno riuscita, una melodia più scontata.
No, c’è di più. Intanto a Battisti io contesto un grande malinteso di massa: si dice “è stato il poeta di una generazione”, e anche solo a volerci credere (io per esempio non ci credo: penso piuttosto a molte belle intuizioni allungate di banalità, voglia di stupire e istinto commerciale), beh, in ogni caso, anche a volerci credere, quello non è Battisti, è Mogol.
Si dice: beh, ma Battisti ha rivoluzionato la musica. Ma con quale innovazione, quale? Quella del giro di do? Degli arpeggi parrocchiali? Delle voci  sfiatate? Ce n’erano già, in tutto il mondo! No, pietà, non fatemi continuare. Battisti non ha posto nel mio Pantheon. Battisti è buono solo per i falò, e anche io tante volte l’ho suonato, lo ammetto. Ma non era amore, solo ammiccamento. Perché Battisti è semplice e funzionale, è musica d’uso, direbbero quelli bravi. Serve a veicolare sentimenti e sensazioni ed è un veicolo buono per tutti, perché universalmente riconosciuto: fai Battisti e le bocche si schiudono, la voce spunta timida pure dalle pietre, in un attimo tutto canta attorno a te.
Battisti è un comodo passepartout. Dice: lo conosci Battisti? Sì, ma dai, non vorrai che lo esegua. Poi con noia navigata accenni a Motocicletta o Il mio canto libero e in un attimo tutto miracolosamente funziona. Battisti perciò non è un artista, che può piacere o non piacere. E’ un’identità collettiva, una teoria universale: ovunque la applichi, il risultato sarà quello atteso. Io lo odio da sempre, e sempre lo odierò. Ma è ormai un odio d’ufficio, a cui ho affastellato sopra nel tempo ripiani di stracci e chincaglierie, per coprirlo e attutirne l’effetto. Ormai quasi non si vede più: so che c’è, scherzi? Ti dico che lo odio.  Ma per trovarlo ormai, questo odio, devo scavare.
E’ un sentimento smussato dalla considerazione oggettiva che no, Battisti non si può negare. C’è, e lo sai, è lì, in ‘ste cazzo di bionde trecce e gli occhi azzurri e poi, lo vedi che la sai? Battisti è una catena di Sant’antonio: tiri una nota, o una parola, e quella si porta dietro il resto del brano. Come un binomio imprescindibile, un rosario di assunti, di domande e risposte scontate che stanno alla cultura italiana come la sabbia al mare. Così va con “motocicletta” e “10hp”, qualunque cosa voglia dire, con il treno che ovviamente parte alle 7 e 40, unico e coeso come “acqua azzurra” e “paraparappa”, come il la minore dopo il do, come le plettrate in quattro quarti e “vieni che ti insegno la chitarra” e subito parte La canzone del sole.
Battisti insomma fa parte di noi e della nostra cittadinanza italiana. Dovrebbero scriverlo nel passaporto, quasi, e come fai a odiare una cosa che fa parte di te? E’ come negare di avere due braccia, come estirpare la malapianta che ti ha nutrito. Perché Battisti non è Battisti, e la sua musica ormai da tempo non gli appartiene più: è un patrimonio collettivo.
Ma se un’opera d’ingegno diventa cultura popolare, caposaldo, linguaggio comune, il fatto è che tu a quell’opera e al suo autore devi giurare rispetto. Perché non è la nicchia che fa la Storia. La nicchia tuttalpiù può influenzare un’altra nicchia, e insieme possono ispirare un’opera di più vasto respiro.
Battisti invece è altro, Battisti è fondativo ed è per questo che ho deciso che ho smesso di od, per questo ho scoperto che ora mi pia, per questo ho capito che lo apprez, per questo quasi lo am, volevo dire che ormai lo am. Oh, non ce la faccio. Niente. Apprezzerete l’impegno profuso. Non tiratela più ‘sta corda, altimenti si spezza. Ascoltatelo, piuttosto. Sta su Spotify e su iTunes. E fatelo ascoltare ai vostri figli: mi fido delle nuove generazioni, sai mai che si trovi uno più coraggioso di me.