Quando si torna alla musica dal vivo, dopo una pandemia, l’ideale è ripartire dai fondamentali. Concetto soggettivo, è vero, ma al tempo stesso universale, poiché proiettabile in mille e una declinazioni.

Fondamentale, lo dice la parola stessa, è una scatola di ingredienti universali, pochi ma sicuri, con cui sai che andrai a segno. Il primo ingrediente in genere è un locale. Un posto tipico: stretto, dotato di bancone, personale simpatico, tavolini, oggetti strambi alle pareti, volti noti anche se non li conosci e in un angolo un palchetto minuscolo, ma perfetto per l’obiettivo. Che non è il concertone di Roma, né tantomeno l’evento della vita. L’esito atteso, nei fondamentali, è l’idea semplice quanto rivoluzionaria che su di quel palco, a un certo punto, mentre chiacchieri con un amico, le lucette si accendano e qualcuno si alzi da un tavolo di fianco al tuo per varcare la soglia del qui e ora e proiettarti nel suo mondo.

Un posto del genere a Bologna è il Cortile Cafè, o la Cantina Bentivoglio, ma anche mille altri luoghi. Vi bazzicano in genere degli artisti-tipo, quasi stanziali, perfettamente a casa, che si mescolano di sera in sera dando luogo per magia a combinazioni sempre nuove. A Bologna uno dei miei preferiti è Massimiliano Turone, per gli amici Max. Un contrabbassista e bassista dalle radici nel jazz e la chioma in tutto il resto dello scibile sonoro, protagonista di dozzine di produzioni discografiche, membro di altrettante formazioni live. Uno di quelli che senti un disco, un disco X, che ti mette benessere ma non sai perché. C’è un quid, qualcosa oltre ai testi, all’arrangiamento, alla voce. C’è dell’altro e non è l’assolo, ma qualcosa dietro, di indefinito, che vibra: un guizzo, un riverbero, una nota, un passaggio che da solo reggebbe in piedi tutto il brano. Diresti che è l’estro, la magia dell’insieme, ma poi leggi i crediti e dici “ah, va beh, chiaro, c’è Max Turone”.

Un altro fondamentale è Massimo Tagliata, per gli amici Max. Tagliata è cieco e questo funziona da micidiale effetto moltiplicatore nei confronti dei tasti della sua fisarmonica, lo strumento, tra i tanti che suona, con cui si sente più a suo agio. Il punto è che la tastiera di Max Tagliata sembra non finire mai. Lui l’accarezza, ci saltella sopra, ne esplora gli spazi ed è in grado, evidentemente, di moltiplicarne le ottave. Lo noti negli assoli, ma anche in certi arzigogoli fulminei con cui sottolinea i momenti peculiari di ogni brano. Abbellimenti, trilli, terzine che in una tastiera dall’estensione standard, di mercato, non troverebbero posto. Mancherebbe proprio lo spazio fisico per completare un fraseggio ambizioso come quelli che in genere allestisce Max Tagliata. Solo che lui a un certo punto, osservatelo se vi capita, dopo aver toccato col mignolo il confine fisico della tastiera, torna indietro per prendere la rincorsa, poi alza la testa, la inclina a destra, saltella lievemente sulla sedia e inizia a far ballare le dita su dei tasti che, pare ovvio, noi non vediamo e lui sì. E’ uno spettacolo, Tagliata, un moltiplicatore di note, un amplificatore di spazi sonori, un +1 da aggiungere a ogni formazione. Robe del tipo: in quanti suonate? Beh, siamo un trio, ma c’è Tagliata.

Ora: i fondamentali nella mia personale tavolozza dei colori sono tanti, e a descriverli tutti ci vorrebbe uno spazio infinito, ma noi non siamo Tagliata. Serve fermarsi ma non prima di aver  aggiunto perlomeno il Cantautore. Nome di battesimo Mirco Menna, classe 1963, bolognese di geni meticci, già batterista, poi chitarrista, interprete di brani altrui, autore di brani suoi, gran casinista, artista sopraffino, produttore inesauribile di versi nati già indimenticabili come questo: “Baby, siamo uguali e splendidi / ci si nota volentieri / perché stiamo bene al mondo / come i gerani sul terrazzi” (il brano è “Normale”, il disco è “Ecco”, ed. Storie di note). Il suo nome, canta Mirco in un altro brano con modestia, ha poca importanza.”Fa già parte del grande mistero” (“Beghine”, sempre in Ecco), e di misteri qui ce ne sono molti. Il primo è come faccia Mirco Menna a scrivere testi e accoppiarli ad accordi che poi, appunto, stanno subito bene insieme come gerani al sole sui terrazzi. Il secondo mistero è come mai uno come lui non abbia mai vinto un premio della Critica a Sanremo, non sia inserito nelle antologie scolastiche, cose così.

Ma va bene così: la sua dimensione ideale, la sua comfort zone è stare in un disco o sul palco di un locale insieme a gente come Tagliata, Turone, Roberto Rossi, Maurizio Piancastelli, e suonare i suoi brani, o quelli di Modugno, o la musica napoletana o quella latinoamericana o qualunque altra cosa e farti pensare che in fondo non c’è molto di meglio da chiedere a una serata. Che poi, quanta gente sarebbe in grado di proporre brani propri, un disco inedito, dal vivo, e farti uscire con la sensazione che quei brani, in fondo, erano già tra i tuoi preferiti? Erano nell’aria, evidentemente, bastava tradurli. Lui di recente lo ha fatto per la sesta volta, e dunque ha intitolato il disco “Sestoqui (è perché vi voglio bene)“. Lo ha prodotto Platonica lo scorso anno, in piena pandemia, lo ha distribuito Believe e lo trovate, al limite, se proprio non vi capita un cd o un concerto dal vivo, anche su Spotify. E’ un disco allegro, profondo, grintoso, poetico, i cui brani già fanno bella mostra sul terrazzo di Mirco Menna come se ci fossero sempre stati. Ma anche questo non è un miracolo. Semplicemente, sono i fondamentali.