C’è una potenza disperata e senza tempo che si sprigiona ancora oggi dalle pagine de ‘I Superflui‘. Capolavoro anni ’50 del romagnolo Dante Arfelli, l’opera fece una fiammate tale alla sua uscita da rischiarare due mondi, e poi con la stessa foga, quando la fiamma si spense, fu dimenticato qui e là.

Là è negli Stati Uniti, dove ‘The Unwanted’ (ristampato poi come ‘The girl of the roman night’, per ammiccare alla Dolce Vita) fu pubblicato da Scribner, l’editore di Hemingway, e sfiorò il milione di copie. E in Europa i fasti non furono da meno: apprezzato in Francia, il che già è una notizia, in Italia l’esordiente figlio di un vigile urbano di Cesenatico (ma gli Arfelli sono originari di Bertinoro) vinse l’allora celebre Premio Venezia con un’opera definita “amara, cruda, disperata”.

Chi sono i Superflui lo dice il nome stesso. Sono gente di soverchio: un giovane campagnolo senza qualità che va a Roma con la raccomandazione del suo curato di paese. Privo di ambizioni non cerca tanto fortuna o successo, non vuole mangiarsi il mondo. Vuole campare: una rendita, uno stipendio, una grigia tranquillità. Trova invece una prostituta, che fa la vita per riempire un libretto postale custodito gelosamente nel comò, e che un giorno la porterà in Argentina. Solo che la cifra, soppesata con speranza a ogni fine del mese, sale di un poco e poi precipita inesorabile, trasformando il suo sud America in un amaro Godot.  Chiude il quadro una vecchia che affitta loro le camere,  e che è un misto di avidità e invidia per la gioventù sprecata dai due protagonisti. Sprecato è infine il gesto di un anarchico loro amico, che vorrebbe cambiare il mondo e finirà per barattare la sua vita per qualche mese di salario in più alla gente che vorrebbe annientare.

Vite inutili in contrapposizione netta con chi invece ce la fa. I personaggi positivi, in questo libro, sono sicuri e invidiati, ma poco delineati. Arfelli li usa solo per contrapporli a quegli altri, che hanno continui afflati verso un miglioramento che quando arriva è sempre un fuoco di paglia, e subito dopo aver brillato ricade su se stesso. Un lavorìo logorante che la scrittura asciutta di Arfelli riesce a rendere alla perfezione. Una continua tensione spompata, che pagina dopo pagina affastella i tentativi, le pulsioni, le sterzate dei suoi protagonisti, utili a far gonfiare illusioni malriposte e puntualmente sconfessate. C’è una scena da Oscar, in questo. Luca, il protagonista, frequenta un salotto romano nella speranza di trovare una nuova raccomandazione per quando il suo lavoro a tempo nell’ufficio paghe di un cantiere inesorabilmente finirà, a lavoro concluso. Vorrebbe parlare con tutti, non parla con nessuno. Conosce solo un avvocato, un ex deputato caduto in disgrazia, con cui riesce nel tempo a conquistare il saluto con un cenno. Traguardo ‘altissimo’ con cui si riscalda per mesi, pur mai monetizzato per la solita inerzia. E quando finalmente la spinta arriva, e Luca si avvicina per parlargli, l’avvocato lo anticipa, rivolgendogli la parola, ma lo chiama, sbagliando clamorosamente il suo nome, solo per chiedergli di passargli un bicchiere. Ecco, ‘I superflui’ è così: un libro spietato.

Peccato che il destino abbia voluto che superfluo arrivasse ingiustamente a sentirsi anche il suo autore. Non che la sua vita non fu piena: Arfelli ebbe famiglia e soddisfazioni. A Cesenatico fondò e diresse le scuole elementari che portano il suo nome, poi per anni insegnò italiano all’istituto Tecnico Serra di Cesena, amato dai suoi studenti. Scrisse ancora, pubblicò ‘La quinta generazione’ e qualcos’altro, poi anni di nulla, fino a un passo dalla fine, quando raccolse i suoi scritti dalla casa di riposo dove si spense, dopo aver ottenuto il vitalizio previsto dalla legge Bacchelli. Quello che l’Italia – quasi sempre tardivamente, e insufficientemente – riconosce a coloro che con le loro opere d’ingegno hanno dato lustro alla nostra cultura.

Ritornati in libreria nel 1994, grazie a Marsilio, oggi i Superflui sono di nuovo scomparsi. Svaniti dai cataloghi, com’è nel loro destino, occorre cercarne una copia nelle biblioteche pubbliche che lo hanno a catalogo. Uno sforzo poi ampiamente ripagato dalla bellezza dirompente di un’opera che, a distanza di più di mezzo secolo, sa ancora risultare potente e attuale. E cos’altro ci vuole per farne un classico?