A cosa pensa un’insegnante di fresca nomina in Romania, ai tempi del regime comunista di Ceaușescu? A fuggire, forse no, non subito perlomeno. Per desiderarlo, infatti, in primo luogo servirebbe conoscere l’altrove a cui si aspira. Né Alina e né Liviu, protagonisti di ‘Bottigliette’ (Sophie van Llewyn, Keller editore), sanno invece cosa cambi, al di là del confine, al di là dei Toblerone e di qualche sigaretta dal tabacco migliore.

Non lo sapevano da giovani guide turistiche per vacanzieri tedeschi e inglesi, pronte ad accompagnare senza curiosità i loro ospiti fino a fuori dalla porta dei negozi per valuta estera, a loro preclusi. E non lo sanno neppure quando la loro vita di sposini sembra avviarsi verso un successo semplice, ma possibile. Alina, forse, pubblicherà i suoi problemi di matematica in un libro di testo. E Liviu, promettente docente di storia, è corteggiato dalle alte sfere scolastiche.

L’occidente, per loro, è al massimo un mondo onirico fatto di beni materiali e di piccoli vezzi (un rossetto, un paio di jeans, uno snack al caramello) che Alina continua a chiedere ogni anno, ormai adulta, di nascosto a Babbo Gelo. Avrebbe detto Natale, un tempo. Ma in Romania, a quei tempi, la religione e tutto ciò che le sta attorno, seppure ufficialmente tollerata, è bene che non si sbandieri troppo.

Il tema, lo sappiamo, è che nei regimi totalitari tutto fila liscio finché qualcosa non va storto. Un assioma tanto banale quanto implacabile. E così quando un fratello di Liviu decide di scappare in Francia e Alina chiude gli occhi di fronte a un’alunna che ha con sé un fumetto per bimbi proibito al di qua, ecco che il mondo attorno a loro crolla implacabilmente.

Ecco l’incubo, dunque: servizi segreti, persecuzioni, botte, isolamento. Da parte di tutti, perfino, anzi in testa a tutti, della sua stessa mamma. La spirale, raccontata con gli occhi semplici e sognatori della protagonista, è di quelle che toglierebbe il sonno anche qui e ora, al sicuro nelle nostre democrazie. Sarebbe già sufficiente per farne un buon libro, però Sophie van Llewyn alla sua prima prova letteraria (vive in Germania, e scrive in inglese),  aveva ancora due armi a disposizione e le ha sapute usare. La prima è uno stile di scrittura e un’idea di intreccio originalissimi, fatti di liste della spesa, di pagine di diario, di racconti commentati del pensiero materno e mille altri inserti inediti e mai fuoriluogo.

La seconda è la magia. Intesa proprio in quanto tale, seppure mai stucchevole o esageratamente fantasy. Un metafisico che affonda solido le sue radici nella tradizione esoterica rumena, fatta di antichi rituali religiosi e imprevedibili esiti. Un inserto inatteso anche questo, ma in grado di donare al libro le pagine giuste per renderlo, a suo modo, un piccolo capolavoro da divorare.