Facile pensare alla ex Jugoslavia negli anni della guerra. I suoi scontri, il suo sangue, il dolore e i tradimenti: tutto è già fissato nella mente degli spettatori occidentali.  Ci sono i libri, c’è la Rete, le immagini dei telegiornali e c’è la storia, anche quella più antica, che i libri hanno ormai codificato. Ma oggi, adesso, ora, cosa sono davvero i Balcani?

Della Serbia attuale, vittorioso Paese di sconfitti, Dragan Velikić  è una delle voci più prolifiche. Tra le sue pagine (dallo stile ricco, ma senza essere mai barocco né convenzionale) si incontra un popolo che fa i conti con la propria storia, e con un’identità che non può che dirsi frammentaria. Sono vite precarie quelle che racconta, sì, ed è facile d’altronde non raccapezzarsi più quando il mondo ti si è capovolto addosso almeno un paio di volte, nel corso di una sola vita.

Così, se c’è un merito per i romanzi di questo ottimo autore contemporaneo, è di sicuro saper descrivere un oggi che noi, dall’altro lato del mare, ci ostiniamo a non considerare. Un presente fatto di donne e uomini con i nostri stessi problemi, le stesse irrequietudini, la stessa perenne voglia di andare senza mai compiersi davvero, a cui il sentimento del tempo balcanico aggiunge però un’ulteriore incompiutezza di fondo, così proiettato su di un domani condannato più di altri a un’instabilità di fondo, perché ha reciso i suoi legami con il passato più prossimo.

Facile trovarli in camere d’albergo, questi serbi di oggi, e d’altronde anche Bonavia, il titolo, altri non è che il nome di un celebre e antico hotel di Fiume. Ben orchestrata la macchina narrativa che Velikic ha messo in moto. Ci sono delle voci, tante e differenti: Marko, Marija e Kristina; ci sono i loro predecessori,I Miljan, Danica, e i loro figli, come Siniša. Ci sono città antiche che giocano al moderno: Belgrado, Vienna, Budapest, con i loro tanti alberghi, quelli ottocenteschi, carichi di identità, e quelli moderni, anonimi e tutti uguali. E ci sono le vite incompiute di chi ci vive, anche solo di passaggio.

Una perenne ricerca di una direzione da seguire, complicata dai riverberi di un passato che la guerra (che non viene mai citata) ha spazzato via come un colpo di scopa spagina una fila di formiche. Ecco, allora, sì: questi personaggi sono come delle formiche dopo un colpo di scopa: un forsennato muoversi in un mondo ormai calmo, alla ricerca di un ordine precostituito che ormai non esiste più.

C’è la poi storia autobiografica dell’autore, che si rispecchia in tutte quelle dei suoi personaggi e in nessuna e che – se una critica si deve fare – forse avrebbe fatto bene a non palesarsi mai, strappando il telo della finzione. Ma d’altronde Bonavia cos’è se non la storia della rottura di ogni finzione? Un limpido viaggio introspettivo, una ricerca metodica della direzione da seguire quando la nebbia si è diradata. Una seduta psicanalitica di tutto un popolo, pervicacemente orientato verso un futuro che, per poter continuare a crescere, ha un disperato bisogno di piantare bene le sue radici lì dove erano un tempo. Anche se il terreno attorno non è più tornato uguale.