Un anno fa circa mi è stato chiesto di parlare della ‘Tradizione musicale bolognese in Italia e nel mondo’. Ho accettato un attimo prima di realizzare di non sapere cosa dire. Non sono tante, pensandoci, le zirudele famose fuori Bologna. Pensavo di rifiutare, ma la svolta è stata invertire il titolo. E dire: le tradizioni musicali italiane e del mondo a Bologna.

Dove Bologna, però, attenzione, non è semplicemente il teatro in cui i musicisti del mondo si esibiscono. Il punto è piuttosto riconoscere a Bologna – città della musica Unesco – un’innata arte maieutica nell’estrarre la musica dall’anima degli artisti di passaggio. Non è una città, piuttosto il tavolo di un ciappinaro dove realizzare quello che l’antropologo Claude Levy Strauss chiamava bricolage. Ovvero: incontrarsi, mettere sul tavolo pezzettini di culture e di musica già sentita, poi armarsi di colla e di chiodini e, partendo da pezzi totalmente noti, comporre qualcosa di straordinariamente nuovo.

Sul perché succeda a Bologna e non altrove, le ragioni sono note e sono le solite. Bologna è al centro dell’Italia, è stata per secoli punto di scontro tra popoli, è sede della prima università d’Europa e da quasi mille anni accoglie le menti del mondo e le fa mescolare: un posto dove si può incontrare il mondo, stando fermi. Immaginiamo infatti che ognuna di queste persone, da più di mille anni arrivi in città portandosi con sé uno zaino pieno di idee, musiche dell’infanzia e cose sentite per strada. Il passo successivo è entrare in una casa, conoscere gente e iniziare una jam session, come facevano i jazzisti americani degli anni ’20.

Ecco allora che comincia a prendere forma la tradizione musicale bolognese: era il 1250 quando a Bologna si formò il Concerto palatino della signoria di Bologna, che nasce come una jam session (8 trombonisti incontratisi per caso iniziarono a suonare insieme, senza spartito) e diventa a tutti gli effetti la prima band moderna della storia della musica: si esibiva in piazza Maggiore alla mattina alla sera per accompagnare le liturgie. Una band e non un singolo, ed ecco un altro elemento fondante: la tradizione musicale bolognese non è fatta di assoli, ma di concerti; musicisti che si incontrano per fare insieme qualcosa, grazie anche a eventi come: la prima cattedra di musica che un’università ricordi, istituita nel 1450; la prima esposizione musicale internazionale nel 1888 ai Giardini Margherita; la prima edizione del festival del jazz organizzato nel 1959; la prima edizione del più importante festival di musica per bambini, lo Zecchino d’Oro, anno 1961; il primo corso di laurea in arti musica e spettacolo, il famigerato Dams, anno 1971; poi, si diceva, la nomina di Bologna Città creativa della musica, anno 2006.

Creativa, dunque: è la terza parola chiave, perché i musicisti che arrivano a Bologna paiono attratti da questa particolare condizione favorevole all’espressione creativa. Era il 1770 e l’allora popstar più nota all’epoca, Mozart, autore di hit fatte per far ballare le corti e diventare gli immancabili brani di ogni serata mondana, venne a stare per un po’ a Bologna.  Mozart aveva 14 anni ed era già famoso per le sue composizioni. Cosa gli mancava? Facile: far balotta. Così arrivò sotto le Due Torri a conoscere Farinelli, Giovan Battista Martini e aggregarsi all’Accademia Filarmonica.

Mozart fu il primo di una lunga serie di artisti attirati dalla musica d’insieme bolognese. Prendete Chet Baker. Il più grande genio del jazz di tutti i tempi, arrivò negli anni ’60 per curarsi i denti, chissà poi perché, e ci rimase per dare vita, da jam session a jam session, a quella scena del jazz che attirerà negli anni un numero spropositato di altri protagonisti, da Steve Grossman a Marco Tamburini e Paolo Fresu, e altri ne genererà in loco, come Piero Odorici, la Doctor Dixie Jazz Band e mille altri.

Qui però siamo a un nuovo punto di snodo, poiché la quarta parola chiave è il concetto di bolognesità, che fa sì che Bologna, furbescamente, faccia suo tutto che passa di qui e qui genera qualcosa. Fatto più unico che raro: a Torino, Roma o Milano si dice che l’artista taldeitali è toscano, inglese, lucano, anche se da tempo ha scelto di vivere in città. A Bologna è il contrario. Paolo Fresu non è sardo, ovvio, ma bolognese d’adozione. E con lui il fumettista Andrea Pazienza, il fondatore dei Massimo Volume, Emidio Clementi, il giallista Carlo Lucarelli, il semiologo Umberto Eco e quanti altri? Non basterebbe una vita a citarli tutti. Basti un solo paradosso: sotto le due torri sono nate le band più rappresentative della musica popolare tradizionale di altri luoghi.  Così è stato per i calabresi Il parto delle Nuvole pesanti, i leccesi Sud Sound System, la Taranta Power campana di Eugenio Bennato… tutti progetti musicalmente nati a Bologna. E ci sono infine gli artisti in nuce che solo a Bologna sono finalmente diventati tali: Gaetano Curreri di Bertinoro, fondatore degli Stadio, il romagnolo Samuele Bersani, il vate di Zocca Vasco Rossi, il modenese volgare, Francesco Guccini e tutti gli altri, da Abbado a Ezio Bosso, vero humus anche per i tanti e straordinari musicisti autoctoni.

Ed ecco dimostrato come la creatività sia intrecciata indissolubilmente ai luoghi, in questa città forse più che altrove. E se Londra ha Abbey Road, Bologna – fatte salve le dovute differenze – ha la Cirenaica. Lì c’è via Paolo Fabbri, 43, dove ha vissuto Francesco Guccini fino ai primi anni Duemila, prima di trasferirsi a Pavana. Da quelle parti c’è anche  Vito, dove le jam session di Dalla, Guccini, Curreri e molti altri hanno generato per anni canzoni e note. Su un tavolo di Vito Samuele Bersani lasciò il testo di una sua canzone, che Curreri trovò, lesse e portò a Dalla. Insieme i due tornarono da Vito, e Bersani in un’intervista racconta: “Lucio mi ci portò per farmi conoscere a Guccini. Lì trovai Luca Carboni che leggeva il “Resto del Carlino” appoggiato a un frigo”.

Quello stesso Carlino che molti anni contribuì a fissare nella mia testa i concetti finora esposti. Da tre anni seguivo da freelance il Festival di Sanremo per varie testate. Avevo appena iniziato a collaborare anche con la Cronaca di Bologna del Carlino, appunto, così dissi al capocronista: “io vado al Festival, quest’anno ci sono Morandi, Dalla, Bersani… è pieno di bolognesi. Se volete li intervisto”. Mi dissero, “ottimo, ma noi vogliamo che intervisti TUTTI i bolognesi al festival”. Passai dei giorni fantastici, unico cronista a inseguire, oltre ai vip, anche il fonico di Dalla, l’autista di Morandi, il chitarrista di Bersani, il clarinettista bolognese dell’orchestra dell’Ariston… Lì capii che la tradizione musicale bolognese non è fatta per i solisti, ma dà il suo meglio nel gioco di squadra. Come il tavolo di un ciappinaro su cui tutti quelli che passano poggiano un pezzetto della loro arte. E magari, pezzetto dopo pezzetto, nascono la Sinfonia in re maggiore di Mozart, Vespa 50 Special dei Lunapop, lo Stabat Mater di Rossini o Piazza Grande di Lucio Dalla. Artista e canzone che rappresentano, per filo e per segno, quanto detto finora.