Da ieri sera devo ancora trovare uno che sia d’accordo con la classifica finale del Festival. Questo non vuol dire che Arisa abbia rubato la vittoria, per carità. Ma personalmente preferirei che tornasse la vecchia giuria popolare, al posto di quella cosiddetta di qualità. E mi piacerebbe che il televoto pesasse molto più del giudizio dei giornalisti, lo dico da giornalista. Se non altro per restituire agli italiani almeno la soddisfazione di decidere chi vince Sanremo, visto che tutte le altre decisioni ormai passano sopra le loro teste.
Detto questo, neppure Ligabue e Crozza ce l’hanno fatta a risollevare le sorti della peggior edizione dal 2008. E un calo così significativo di audience (meno tre milioni rispetto alla scorsa edizione) non si può certo attribuire ai gusti degli spettatori in fatto di canzoni o di conduttori, nè alla concorrenza dei sociali network, della pay tv o del digitale perchè c’erano anche l’anno scorso, c’erano anche due anni fa quando la finale di Morandi registrò un ascolto nettamente superiore nonostante la concorrenza: concorrenza che stavolta, invece, ha calato le braghe dalla prima all’ultima serata.
Dunque il problema va oltre, com’è logico che sia perchè il Festival non rappresenta una semplice gara canora ma un fenomeno di costume, l’indicatore che rileva gli umori del momento. E per questo motivo appartiene a tutti gli italiani, sia a quelli che lo amano sia a quelli che lo detestano. Mentre la coppia Fazio-Littizzetto ha commesso l’errore, fatale, di considerarlo proprietà privata plasmandolo su modelli molto, troppo personali.
In cinque serate i due ci hanno imposto la bellezza che piace a loro, gli ospiti erano tutti amici di Fazio, negli interventi della conduttrice non mancava mai la lezioncina di morale, abbiamo vissuto momenti di imbarazzo per esempio nel vedere Franca Valeri costretta a rimanere sul palco per un tempo che è sembrato interminabile, alla pretesa di una kermesse meno banale del solito si è contrapposta la costante ricerca di personaggi che garantissero audience e quindi sponsorizzazioni, a parte Crozza nessuno ha fatto ridere e casomai si è corso spesso il rischio di piangere per via di quelle continue commemorazioni funebri, il tutto a ritmo di tartaruga e in un’atmosfera pseudo radical-chic che con Sanremo non ha niente a che vedere.
L’altra sera, mentre la Littizzetto con il solito atteggiamento presupponente e provocatorio urlava che sulle passerelle di moda dovrebbero salire modelli con handicap, mi è tornato in mente quando Morandi presentò all’Ariston il suo amico down al quale aveva dedicato una canzone: senza bisogno di aggiungere mezza parola il messaggio arrivò dritto al cuore della platea, visibilmente commossa nel vedere Gianni che lo teneva per mano cantando insieme a lui. Questione di stile, di sensibilità, di umiltà.
Al contrario di quel che pensa il direttore di Raiuno,  non c’è bisogno d’inventarsi nulla di geniale. Certo, una formula più snella non guasterebbe. Ma per il resto basta restituire il Festival agli italiani, coinvolgerli, farli sentire protagonisti. Invece di guardarli dall’alto in basso trattandoli come una sottospecie umana da rieducare.