Mercoledì 24 Aprile 2024

"QI, siamo sempre meno intelligenti"

Secondo una ricerca norvegese dal 1970 al 2009 a ogni passaggio di generazione ci siamo giocati sette punti di quoziente intellettivo

Uno studio ha scoperto il segreto del QI - foto Alexey Kotelnikov / Alamy

Uno studio ha scoperto il segreto del QI - foto Alexey Kotelnikov / Alamy

Roma, 14 giugno 2018 - Nel 2007 lo scienziato James Watson, premio Nobel per la medicina nel 1962 grazie agli studi sulla struttura a doppia elica del Dna, si lasciò andare a una valutazione scioccante: «Gli africani sono meno intelligenti degli occidentali – disse al quotidiano inglese “Independent” –. Tutte le politiche sociali sono basate sull’idea che la loro intelligenza sia come la nostra, ma i test dimostrano che non è così». Watson non era nuovo ad affermazioni radicali e provocatorie di tenore simile, ma quell’uscita fu respinta con grande vigore dalla comunità scientifica, anche se qualcuno cercò di giustificare Watson con la mappa mondiale del QI, il controverso Quoziente di intelligenza: i paesi africani vi figurano agli ultimi posti. Quest’episodio è un invito a considerare con prudenza sia l’indicatore QI – da più parti messo in discussione per la particolare nozione di intelligenza cui fa riferimento – sia qualsiasi considerazione riguardante le capacità cognitive di specifico gruppi umani o intere popolazioni. Perciò la notizia che arriva dalla Norvegia, frutto di una ricerca seria, va accolta e interpretata con circospezione: Bernt Bratsberg e Ole Rogeberg del Regnar Frisch Centre for Economic Centre di Oslo sostengono che il quoziente intellettivo della popolazione è in flessione, decennio dopo decennio, dalla metà degli anni ’70.   I figli sono meno intelligenti (nel senso inteso dal test QI) dei padri con una flessione che procede a ritmo vertiginoso, addirittura 7 punti in meno ogni decennio (il QI di popolazione più alto supera di poco quota 100). Questi dati smentiscono o almeno ridimensionano il cosiddetto “effetto Flynn”, dal nome dello scienziato neozelandese che individuò una tendenza alla crescita lineare del quoziente intellettivo globale, aumentato secondo i suoi studi di tre punti ogni decennio nella prima metà del ’900.   La ricerca norvegese, pubblicata sulla rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” (Pnas), ha preso in esame i test QI di 730mila ragazzi norvegesi valutati al momento della visita di leva, quindi giovani di 18-19 anni di età nati fra 1962 e 1991. Il declino del quoziente intellettivo risulta così netto che all’interno delle stesse famiglie i fratelli minori hanno punteggi inferiori rispetto ai maggiori. 

Come spiegare la generale flessione dei punteggi nel test QI? Bratsberg e Rogeberg non propongono una risposta univoca, ma sembrano propensi ad attribuire la responsabilità del crollo ai cambiamenti avvenuti negli stili di vita dei giovani e nei sistemi educativi, con la preferenza crescente per videogiochi ed elettronica a discapito della lettura. I numerosi critici dei test QI restano scettici su qualsiasi interpretazione, perché il cambiamento registrato in Norvegia – osservano – potrebbe derivare dal banale invecchiamento dei quesiti che pretendono di misurare il quoziente intellettivo, non più adatti all’intelligenza moderna... L’analisi del centro studi di Oslo fa tuttavia pensare a un’altra pur diversa ricerca condotta da Jean M. Twenge, psicologa all’Università di San Diego, e appena pubblicata in Italia col titolo “Iperconessi” (Einaudi editore).    La sua indagine si è concentrata sulla “iGeneration” (i nati dall’anno 2000), caratterizzata secondo la studiosa da tendenze come il prolungamento dell’infanzia oltre la soglia dell’adolescenza, il declino delle interazioni sociali, l’isolamento e il disimpegno, l’aumento dei problemi di salute mentale (ci sono anche trend positivi come la propensione ad accettare le differenze e la libera discussione). «I teenager che passano più tempo con gli amici in carne e ossa – scrive Twenge – sono più felici, meno soli e meno depressi, mentre quelli che passano più tempo sui social sono meno felici, più soli e più depressi». Sembra un’ovvietà ma non corrisponde, secondo la psicologa, agli stili di vita correnti fra nella “iGeneration”, perciò i suoi consigli a genitori e ragazzi, QI o non QI, sono da prendere in considerazione: limitare l’uso dello smartphone a un’ora al giorno; affrontare esplicitamente i rischi di nudi e porno on line; uscire più spesso con gli amici.