"La qualità va di moda: così abbiamo battuto i cinesi"

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UNA RIPRESA TALMENTE forte tra il 2021 e il 2022 da essere quasi inaspettata, dopo il colpo inferto nel 2020 dalla pandemia e un 2023 su cui pesano le nubi che – dal caro energia e materie prime alle difficoltà di approvvigionamento ed evasione degli ordini per il blocco produttivo in Cina per i lockdown anti-Covid fino alla guerra in Ucraina – hanno reso più incerto l’orizzonte. Ma la filiera della moda, e quindi del Tessile, Abbigliamento e Accessori, rimane uno dei principali punti di forza della nostra economia e del Made in Italy nel mondo. Ne è convinto Ercole Botto Poala, presidente di Confindustria Moda e alla guida come Ceo e con il supporto dei cugini Francesco, Fabrizio e Guglielmo, del gruppo Reda, storico lanificio di Valdilana, nel distretto biellese del tessile. "Quella del Tessile, Abbigliamento e Accessori è una filiera che nel complesso è rimasta integra nonostante la pandemia, anche se prima il Covid, poi i rincari energetici e la guerra russo-ucraina hanno chiesto un duro prezzo e molte piccole e medie imprese hanno chiuso – esordisce Ercole Botto Poala – Il 2022 è stato un anno complesso: il fatturato del settore è cresciuto in maniera importante, superando i 100 miliardi, ma il boom dei costi energetici e delle materie prime ha avuto un impatto drammatico sui costi, causando una grave erosione degli utili che mette a rischio la nostra capacità di investire per poter rimanere competitivi. Anche se la capacità di reazione delle imprese e il riconoscimento mantenuto dal Made in Italy nel mondo, confermato dall’ottimo andamento delle esportazioni, ci lasciano fiduciosi".

Un riconoscimento che vede in prima linea Reda?

"Per il nostro gruppo il 2022 si è chiuso positivamente, con una crescita dei ricavi di circa il 30% a 106 milioni, di cui l’80% destinato all’export a partire da Usa, Germania, Cina e Giappone. Una crescita che ha confermato le scelte lungimiranti fatte dall’azienda nel corso degli anni. Il Lanificio Reda, infatti, gestisce e controlla direttamente tutta la filiera produttiva, dal vello al prodotto finito. Eccellenza e artigianalità Made in Italy coniugata alla gestione familiare dell’azienda, ci hanno permesso di posizionarci con successo nel segmento della produzione di tessuti di lusso destinati in prevalenza all’abbigliamento maschile, collaborando con le più importanti maison di moda".

Come avete battuto la concorrenza cinese?

"Decidendo, oltre vent’anni fa quando la Cina è entrata con forza nel mercato del tessile, di non considerarla un avversario ma un’opportunità. Per questo abbiamo aperto un ufficio commerciale a Shanghai per distribuire i nostri filati sul mercato cinese. Al contempo abbiamo capito che per restare competitivi avremmo dovuto puntare sui tessuti di alta gamma, dimostrando che il valore aggiunto dato al prodotto ha compensato i più elevati costi produttivi dal realizzarlo tutto in Italia, mantenendo da una parte l’artigianalità della lavorazione e dall’altra investendo sia in nuove tecnologie – come l’aver trasferito ai filati di lana la tessitura compatta del cotone che conferisce maggiore resistenza ed elasticità ai tessuti – sia nel valore della sostenibilità. Quest’ultimo ci ha portati ad essere, nel 2020, la prima azienda tessile italiana, e tra le prime al mondo, attenere la certificazione B Corporation".

Per venire incontro alle difficoltà del settore il nuovo governo ha fatto ripartire a gennaio il Tavolo della Moda.

"Di questo siamo molto soddisfatti. Avere un dialogo aperto con le istituzioni è fondamentale sia per la filiera del Tessile, Moda e Accessorio, perché sia messa nelle condizioni di crescere ed essere competitiva a livello globale, sia per tutto il sistema Paese. Il nostro settore è in grado di portare ricchezza in maniera inclusiva, tanto che un recente studio del Censis ha evidenziato come ogni euro pubblico investito nel Tessile, Moda e Accessorio sia in grado di generarne tre per il sistema Paese. Investire, tenendo conto anche degli effetti provocati dalla pandemia, e penso soprattutto alla ‘chiusura’ della Cina, significa ripensare tutta la filiera e rafforzare il fenomeno, già in atto, del reshoring, il ritorno delle produzioni in Italia. Ma questo Paese deve dire se vuole o no favorire la manifattura".

Che richieste in tal senso avete messo sul tavolo della moda?

"In primis la riduzione e stabilizzazione dei costi energetici e la valorizzazione dell’eccellenza del Made in Italy, per cui occorre un sistema di controlli e vigilanza sul settore, a tutela delle produzioni industriali e dal rischio di contraffazione. Ma serve anche una riforma fiscale per promuovere una fiscalità amica per investimenti, anche privati, rivolti sia a ricerca e sviluppo su design ed innovazione estetica, sia a innovazione e sostenibilità. E da ultima, ma non per importanza, la riforma del mondo del lavoro a partire dal taglio del cuneo fiscale".

La filiera della moda in questo senso può rappresentare un significativo veicolo per la crescita occupazionale?

"Le aziende, oltre 60mila, di Confindustria Moda prevedono entro il 2026 di inserire, a seconda dell’andamento economico del nostro Paese, fra i 64mila e i 94mila nuovi addetti. Purtroppo le nostre aziende vivono le comuni difficoltà che incontra il sistema manifatturiero italiano sul fronte occupazionale. Difficoltà dovute al problema di incrociare gli skill richiesti con quelli offerti dal mercato e alla non adeguata formazione scolastica in un Paese dove sembra che per essere studenti di serie A bisogna per forza iscriversi a un liceo. Mentre invece, prendendo esempio dalla Germania, dovremmo rafforzare percorsi formativi come quelli rappresentati dagli istituti tecnici superiori, sapendo che la moda non ha bisogno solo di stilisti come la ristorazione di chef, ma anche di figure tecniche qualificate, dai lavori artigianali a quelli sempre più tecnologici e digitalizzati anche in questo settore".