Giovedì 18 Aprile 2024

Green Hill: "Unico imperativo massimizzare il profitto"

Le motivazioni della sentenza d'appello delineano una realtà in cui non c'era alcun riconoscimento dei diritti degli animali trattati come cose e non come esseri senzienti. Carla Rocchi, presidente Enpa: "Gravi motivi di riflessione"

Beagle in una foto AFP

Beagle in una foto AFP

Roma, 25 maggio 2016 – Condotte non occasionali, né limitate a fatti singoli o a periodi limitati, ma “rispondenti ad una precisa e voluta politica aziendale volta a massimizzare i profitti e a minimizzare i costi di gestione a scapito della salute e del benessere degli animali”. Queste le motivazioni alla base della sentenza con cui la Corte d'Appello di Brescia ha confermato in secondo grado le condanne di Ghislaine Rondot, Roberto Bravi e Renzo Graziosi che si erano visti infliggere una pena per complessivi quattro anni di reclusione, oltre al risarcimento delle parti civili e al pagamento delle spese processuali. «Ed è stato proprio a causa di questa politica volta unicamente alla massimizzazione dei profitti – spiega l'avvocato Valentina Stefutti che ha rappresentato Enpa nel procedimento giudiziario – che Green Hill non si era dotata di un ambulatorio idoneo al tipo di interventi che venivano effettuati sugli animali; che, scrive il collegio giudicante, l'eutanasia veniva pratica in maniera disinvolta poiché si preferiva sopprimere l'animale invece di praticare terapie adeguate, lunghe e costose».

Insomma, come si desume dalla lettura della sentenza, i beagle di Green Hill venivano considerati e trattati non alla stregua di esseri senzienti, ma come meri prodotti, il cui valore era dato unicamente dalla loro vendibilità sul mercato, riflette Enpa. “Una politica – precisa la Corte d'Appello – che andava in senso diametralmente opposto all'evoluzione normativa e comunitaria, imperniata sempre più sulla considerazione e tutela dell'animale quale soggetto vivente in grado di apprezzare il dolore e la sofferenza”.

Ma c'è un particolare ancora più drammatico: una comunicazione con cui una nota industria farmaceutica lamentava come i cani fossero spediti in casse dove non avevano libertà di movimento e dove non potevano riposare in posizione confortevole. E come non pochi esemplari fossero affetti da otite. «Significativo è il fatto – prosegue Stefutti – che i giudici d'appello, nel respingere le istanze della difesa, hanno sottolineato l'esiguità della condanna inflitta in primo grado. Restiamo in attesa del passaggio in Cassazione ma confidiamo che la Suprema Corte confermerà quanto già deliberato nei primi due gradi di giudizio». «Questa sentenza – conclude la presidente di Enpa, Carla Rocchi – dovrebbe essere motivo di riflessione per chi ancora sostiene i meccanismi industriali legati alla sperimentazione animale». Per contatti con la nostra redazione: [email protected]