Pasqua in Sicilia

Santi e demoni in corteo con fedeli e miscredenti: così l'isola celebra le tradizioni di Epifania Lo Presti

Gli archi di pane di San Biagio Platani

Gli archi di pane di San Biagio Platani

NEL CORSO della settimana che va dalla Domenica delle Palme a quella della Resurrezione, la Sicilia, che già profuma di mandorlo in fiore e agrumi, si fa teatro di celebrazioni tradizionali e suggestive. In molte città siciliane le processioni del Venerdì Santo rievocano le atmosfere tragiche e cupe della crocifissione e, tra lamenti e litanie, dalle vie cittadine si raggiunge il calvario. A Enna la Settimana Santa, con il momento culmine della processione degli incappucciati, è un bene antropologico patrimonio dell’umanità. Anche a Trapani i protagonisti delle manifestazioni religiose più importanti hanno il capo coperto e da quattrocento anni una lenta processione si snoda per le vie del centro storico con cortei di confratelli che portano in spalla i Misteri, opere scultoree rappresentanti scene evangeliche realizzate dagli artigiani trapanesi del XVII e XVIII secolo: l’andamento tipico è l’annacata, un movimento che segue le cadenze dei brani suonati dalle bande. Il giorno di Pasqua in quasi tutti i centri è un’esplosione di gioia e colori e dagli inni di dolore dei cantori si passa al suono di trombe e tamburi accompagnati da campane festanti. In ogni borgo o città, la Settimana Santa viene vissuta attraverso una grande varietà di manifestazioni e, tra dolore e commozione, è narrato in modo sempre diverso il mistero della morte e della Resurrezione di Cristo. «A PASQUA ogni siciliano si sente non solo spettatore ma attore, prima dolente, poi esultante, d’un mistero che è la sua stessa esistenza», scriveva Gesualdo Bufalino. L’intensità del coinvolgimento emotivo nei riti pasquali rivela un forte senso di appartenenza della gente e un legame indissolubile tra la terra e le tradizioni. Tutti partecipano alle celebrazioni religiose, come figuranti o fedeli poco importa. E i viaggiatori pellegrini, come li definiva Tiziano Terzani, si calano nella realtà che incontrano, dove la narrazione religiosa si fonde con elementi popolari e folkloristici, tra canti e lamenti, fede e laicità, simbologie e metafore, retaggio della contaminazione con la cultura greca, della dominazione spagnola o dell’influenza arbëreshë.

A San Biagio Platani sotto gli archi di pane

LA MATTINA di Pasqua San Biagio Platani si risveglia tra i colori e le imponenti strutture architettoniche che, per l’occasione, incorniciano il corso principale del paese. È la festa degli Archi di Pane, tradizione dallo straordinario fascino che rende il borgo della Valle del Platani famoso nel mondo. Le ninfe, lampadari di collane di datteri e cereali, pendono dall’alto, incantando le centinaia di visitatori che per l’occasione si riversano in strada. Tutto è rigorosamente realizzato con prodotti della natura, dall’intreccio di salici e canne ai mosaici di legumi e cereali. Gli anziani tramandano l’arte della tessitura dei pannelli, abbelliti da corone di alloro e inebriante rosmarino. Ma il vero protagonista è il pane dalle forme più curiose, trasformato in un portale dagli intarsi dorati, oppure in fonti battesimali, quadri religiosi, fiori, piccoli nidi di uccelli e persino alberi, opera della maestria e dell’inventiva delle donne del paese. Il rito degli Archi di Pane affonda le proprie radici nel ‘700: da allora tutte le opere sono allestite in gran segreto e con straordinario ingegno dai componenti delle due confraternite che si sfidano in una sentita competizione, quella tra Madunnara e Signurara, devoti rispettivamente alla Madonna e al Risorto. La preparazione degli Archi inizia qualche mese prima della Pasqua e coinvolge l’intera comunità, che si cimenta nella realizzazione di queste opere d’arte, espressione di un sentire religioso e della cultura popolare. Le strutture ornano il corso per le quattro settimane successive alla Pasqua, e ad oggi costituiscono l’unico esempio di arte popolare collettiva in Sicilia.

Scicli, la festa dell' Uomo vivo o del Gioia

È UN TRIPUDIO festante di corpi ondeggianti, si innalzano inni e grida all’Uomo Vivo, la statua del Cristo Risorto portata in spalla in una corsa frenetica. Non è una semplice processione, è la Festa del Gioia, metafora della rivincita del corpo sulla morte, espressione dell’esaltante gioia di chi dopo tre giorni risorge. Nel giorno della Resurrezione un numero indefinito di giovani avanza tra la folla osannante della barocca Scicli, portando sulle spalle la statua di Cristo, quell’Uomo Vivo, motivo di festa, che ha ammaliato il cantautore Vinicio Capossela tanto da dedicargli un inno. Nei testi del suo Inno al Gioia descrive il movimento della statua e il clima festoso che lo ha ispirato: «Barcolla, traballa sul dorso della folla, si butta, si leva al cielo, si solleva, con le tre dita la via par indicare, nemmeno lui sa dove andare». Nella cittadina della provincia ragusana dichiarata Patrimonio dell’Umanità Unesco, la Pasqua è straordinaria: la statua del Gioia viene sollevata in alto, poi fatta ondeggiare da un lato all’altro provocando un forte coinvolgimento emotivo tra i portatori e gli spettatori che non sono mai passivi. Al Cristo vengono lanciati petali e fiori dalle finestre. Frenesia e gioia animano il rito, che si prolunga per le strade del centro cittadino durante tutta la giornata,  finché, stanchi degli sforzi compiuti, i portatori riportano la settecentesca statua nella chiesa di Santa Maria la Nova con andamento mesto.

A Prizzi si balla con i diavoli  

DiavoliAL RITMO incalzante di tamburi e banda, sin dalle prime luci dell’alba della domenica di Pasqua, tre maschere spaventose danzano concitate per le strade di Prizzi come in un arcaico rituale. Nell’antico borgo dei monti Sicani va in scena un’ancestrale rappresentazione dell’eterna lotta tra bene e male: è il «Ballo dei Diavoli», suggestiva manifestazione mimico-teatrale, le cui origini si perdono nella storia. Gesù è morto crocifisso e il demonio si è impossessato della Terra, così i Diavoli e la Morte, figure cardine dell’intera manifestazione, scorrazzano liberi da un punto all’altro della strada, saltano e provano a catturare le anime dei passanti. È un ballo scatenato, non segue una precisa coreografia. Costituisce l’essenza di una tradizione nella quale sacro e profano si fondono. I Diavoli indossano costumi rossi di iuta come le fiamme dell’inferno, delle pesanti maschere di ferro munite di corna di montone e delle pelli ovine a coprire le spalle. Dalla larga bocca una lingua sbeffeggia il divino e le mani agitano catene spezzate a mostrare la temporanea libertà del male. La Morte indossa un costume giallo e un’orrenda maschera che ricorda la forma di un teschio, tiene in mano una balestra che dirige  l’azione malefica dei diavoli e punta la vittima prescelta. L’intento principale di queste figure è uno solo: ostacolare l’incontro tra Gesù Risorto e la Madonna, ma entrambe le forze del male vengono sconfitte da angeli armati di spada.

San Fratello, il male suona la tromba

DALL’ALBA del Mercoledì Santo fino al venerdì, le vie del centro di San Fratello si fanno scenario dell’antichissima festa dei Giudei. Personaggi grotteschi, in maschera, simboleggiano le forze del male e vagano come impazziti di sepolcro in sepolcro, di casa in casa. Sono uomini di ogni età e indossano costumi tradizionali, custoditi gelosamente da secoli: il volto è coperto da una maschera rossa scura con delle sopracciglia lunghe e arcuate, giubbe e calzoni di mussola rossi con guarnizioni gialle e un cappuccio dal lungo cordoncino che via via si assottiglia per legare la coda. Suonano trombe assordanti per annunciare la loro presenza, entrano nelle abitazioni, dove devono essere serviti e accolti con ospitalità, e disturbano le processioni principali con musiche e canti, ma non parlano mai, rispettando un silenzio assoluto. La rappresentazione ricorda quei giudei che hanno congiurato contro il Salvatore, lo hanno percosso e condotto al Calvario. Una tradizione popolare, di origine Medievale, che affonda le proprie radici nella cultura lombarda di cui la cittadina dei Nebrodi è stata colonia, conservando ancora immutato l’originario dialetto gallo-italico e i costumi figli di quell’influenza.

23/02/2016