Giovedì 18 Aprile 2024

Veronesi lascia l'Istituto dei tumori: "E' il mio atto d'amore"

Il professore 89enne: "Così traghetterò i due successori". "Mi resta un grande cruccio: i tumori a cervello e pancreas. Non sono riusciti a guarirli"

Umberto Veronesi (Lapresse)

Umberto Veronesi (Lapresse)

Giulia Bonezzi

MILANO, 23 settembre 2014 - «UN ATTO di responsabilità personale e di amore», l’ha definito. Ieri Umberto Veronesi, il più famoso oncologo italiano, ex ministro della Sanità, ha lasciato la direzione scientifica dello Ieo, Istututo europeo di oncologia che aveva fondato vent’anni fa a Milano. L’ha lasciata a Roberto Orecchia, radioterapista, che gli subentrerà il prossimo primo gennaio, con Pier Giuseppe Pelicci, genetista, come direttore della ricerca: sono i due condirettori scientifici, con lui dal 1995. Alla squadra che ha in mente manca solo un direttore delle Scienze traslazionali: un italiano, nome top secret, «che vorrei riportare qui dall’America». Lui, Veronesi, 89 anni il prossimo 28 novembre, resta come direttore scientifico emerito: il suo contratto scadeva nel 2016, ha anticipato la risoluzione per gestire il passaggio del testimone. La voce è pimpante: «Oggi è stata una giornata un po’ speciale».

Da quanto tempo ci pensava, professore? «Da un pezzo. Avevo ancora due anni di contratto qui, ma so quanto sia complesso trasferire tutto quello che ho immagazzinato nel mio cervello in tanti anni. L’Istituto è a Milano ma è italiano, europeo, mondiale, ha collegamenti ovunque e bisogna saperli utlizzare al meglio. È un grosso lavoro. Così ho pensato di anticipare la designazione del mio successore. Di fatto sono due. Due grandi ricercatori, cresciuti con me».

Più il nuovo direttore della ricerca traslazionale. «È un ruolo importante: assicurare che i risultati ottenuti in laboratorio arrivino dritti al letto del paziente. Dico sempre, in Istituto, che dobbiamo combinare strategicamente il progresso nella ricerca con l’umanizzazione: è fondamentale, per una buona e corretta terapia, che i medici imparino ad ascoltare i pazienti, quando si ha a che fare con malattie così gravi, che entrano nel pensiero e lo deformano».

Molto del suo impegno si è concentrato nella ricerca di terapie meno invasive, a cominciare dal carcinoma mammario. «È la nostra strategia, delineata già vent’anni fa: è importante guarire le persone perché possano tornare a vivere com’erano prima della malattia. Se ne escono mutilate, o distrutte dai farmaci, cambiano i rapporti col compagno, al lavoro, la qualità della loro vita ne risente».

Professore, non sta mica andando in pensione vero? (Ride) «Io continuerò a essere attivo finché il mio pensiero mi aiuterà. Adesso è lucido, ho buona memoria, riesco ad avere ancora delle idee. Finché il mio pensiero sarà con me non mollerò, fino all’ultimo respiro. Non m’interessa andare a pescare, non è proprio nel mio Dna».

Si può dire che cambia incarico. «Mi occuperò della programmazione strategica dell’Istituto, come poi ho sempre fatto».

Si lascia dietro qualche cruccio? «Due: i tumori cerebrali e quelli del pancreas, che non guariscono quasi mai. Sono le mie due grandi angosce, perché questi ancora non riusciamo a penetrarli e trovare soluzioni. Gli altri tumori, lentamente, li stiamo curando: se non siamo al cento per cento siamo al 90, all’80, al 60 per cento».

Lasciare due anni prima per gestire il passaggio del testimone non è una prassi diffusissima in Italia. «Purtroppo c’è questa brutta abitudine. Chi se ne va lascia il vuoto: “Après moi, le déluge”. È un grande errore. A me il diluvio non interessa. Penso sia una forma di civiltà e di amore per l’istituzione preoccuparsi in anticipo di trasferire tutti i ruoli principali. Contro questa malattia bisogna fare squadra, avere un gruppo di persone che si conoscono, si fidano l’una dell’altra e mettono insieme le proprie idee, che in combinazione possono dare molto di più».

Professore, domani che fa? «Sarò qui in Istituto alle otto. Come al solito».