Domenicali non rimpiange la Ferrari. "La mia testa ora è per Lamborghini"

Dal 15 marzo l’ex direttore della gestione sportiva della Ferrari diventerà presidente e amministratore delegato della Lamborghini. "È una grande sfida che affronto con orgoglio. Darò un’anima italiana ad un marchio che ha la testa in Germania. E l’Audi si aspetta questo da me, dopo aver dato stabilità all’azienda". Un consiglio anche al Paese: "Dobbiamo fare un salto di qualità; smetterla di litigare e presentarci al mondo più coesi per attrarre investitori".

Stefano Domenicali (Ap)

Stefano Domenicali (Ap)

Modena, 9 marzo 2016 - «FORSE all’origine di tutto c’è la prima automobile di mio padre, la prima della quale io abbia memoria. Era una Alfa 2000, bellissima…»

Stefano Domenicali, classe 1965, una carriera in Ferrari, dal prossimo 15 marzo sarà il grande capo della Lamborghini. Un italiano al comando di un brand diventato di proprietà tedesca: l’azienda di Sant’Agata Bolognese è controllata dalla Audi.

«È una grande sfida, che affronto con orgoglio».

In Germania ti hanno assunto a fine 2014: come è andata con i tedeschi?

«Sta andando molto bene. S’intende, nel rispetto delle diversità».

E’ vero che la cultura teutonica del lavoro non c’entra nulla con la nostra?

«Ah, bisogna fare attenzione ai luoghi comuni! Le differenze ci sono, ma riguardano più il metodo che la sostanza».

In che senso?

«In Germania sono meno abituati alle emergenze. Hanno una attenzione maniacale per l’organizzazione. Il loro è un sistema integrato, nel quale tutti i dipendenti sono importanti e però nessuno è indispensabile».

Nessuno nessuno?

«Nessuno. Il merito ovviamente viene riconosciuto, sta al primo posto. Ma conta la squadra, il gruppo. È così alla Audi, è così in ogni loro struttura industriale o finanziaria. E io desidero sia così anche nella mia Lamborghini. Ne approfitto per ringraziare Stephan Winkelmann per quanto ha fatto a Sant’Agata».

C’è chi dice che il tedesco, dalla Merkel in giù, coltivi una a diffidenza per l’italiano.

«Io non me ne sono accorto. Di sicuro mi sono dovuto adattare alla loro cultura. Da noi in molti ambiti prevale la logica dello One Man Show, il leader che impone personalità e idee. In Germania, l’ho detto, non è così. Ma escludo ci sia un pregiudizio nei confronti degli italiani. Semmai è vero il contrario».

Sul serio?

«Beh, se uno si fa un giro nelle aziende automobilistiche tedesche scopre presto che sono pieni di ingegneri che arrivano dal Bel Paese. I tedeschi apprezzano la nostra creatività e hanno un debole per l’eleganza del nostro vivere e dei nostri prodotti. Senza dimenticare la lezione di Schumi».

Michael Schumacher, cinque volte campione del mondo al volante della Ferrari.

«Lui, il carissimo e sventurato Schumi. Lui ha insegnato ai suoi connazionali che la combinazione Italia-Germania è un modello vincente. Così spero sarà la mia Lamborghini. Cuore a Sant’Agata, portafoglio a Ingolstadt».

Come iniziò l’avventura del Domenicali ferrarista?

«Ero giovane. Mi laureai in economia nel 1991, con una tesi sui sistemi informatici in Alitalia».

C’entrava già Montezemolo!

«No, all’epoca nemmeno stava a Maranello, l’avvocato. Io mandai in giro il curriculum e la Ferrari mi assunse. Primo incarico, affari societari e fiscali».

Toccò il cielo con un dito?

‘Sì, perché venivo da Imola, impazzivo per Gilles Villeneuve e debuttavo sul lavoro nella azienda mito. Certo non avrei immaginato il percorso che ho fatto, fino a diventare il capo del reparto corse».

Rimpianti?

«Zero. E’ stato bellissimo. La Ferrari è una cosa che ti rimane sotto la pelle, ti rendi conto di aver fatto parte di una storia unica. Però adesso in testa c’è solo Lamborghini».

Lamborghini che nacque in opposizione alle macchine del Cavallino, oltre mezzo secolo fa.

«La storia la conosco, Lamborghini criticava Ferrari da cliente per una faccenda di frizioni, il Drake rifiutava i suoi suggerimenti e così nacque la fabbrica del Toro».

Roba inimmaginabile fuori dalla Terra dei Motori.

«Esatto. Non starò qui a fare discorsi sul Dna di un popolo, romanticamente penso che i nostri nonni avessero voglia di spostarsi in fretta, per vedere il mondo. Si sono dedicati alle auto e alle moto, con i risultati che sappiamo».

Che cos’è la Lamborghini del 2016?

«Una azienda che sotto il controllo di Audi ha trovato la stabilità e questa è una premessa fondamentale. Il marchio è in salute, abbiamo grandi piani di espansione. Sto iniziando a conoscere le persone che ci lavorano, avvertono l’orgoglio della appartenenza a un brand speciale. Sarà una bellissima avventura, ne sono sicuro».

C’è chi sostiene che l’industria automobilistica sia sulla soglia di una rivoluzione globale, dalle vetture elettriche alle macchine che vanno da sole.

«Il futuro è già qui, la mobilità elettrica è una prospettiva certa ma fatico ad immaginare una Lamborghini senza benzina! Nel frattempo le soluzioni ibride fanno da ponte tra tradizione e avvenire. Ma è un futuro da affrontare ad occhi aperti. La velocità del cambiamento è impressionante. Oggi una azienda funziona solo se ha una fenomenale capacità di reazione ai mutamenti. Vale per la Lamborghini come per una nazione».

L’Italia del 2016 come si presenta sul ring?

«Di natura io sono sempre ottimista. Ma dobbiamo fare un salto di qualità, offrire all’esterno una immagine più solida, più coesa. Troppo spesso al resto del mondo diamo l’impressione di essere affetti da una litigiosità interna insanabile. Dobbiamo essere più integrati, per guadagnare credibilità e attrarre investimenti».

La Lamborghini targata Audi allora è un modello.

«Vuole esserlo. L’Europa non può essere solo una somma di regolette burocratiche, deve rappresentare un insieme di valori condivisi».

Anche partendo da una Miura costruita in Emilia.

«Assolutamente sì».