Giovedì 18 Aprile 2024

Sacchi: la Juventus è come il Rosenborg, vince sempre in Italia ma non in Europa

"La Vecchia Signora è dieci anni avanti a tutte le altre per coesione e competenza. Il suo limite sono i verbi..."

Arrigo Sacchi (Ansa)

Arrigo Sacchi (Ansa)

Torino, 9 marzo 2016  - Anche se il momento non è particolarmente felice per il calcio italiano, maltrattato in Europa, "tirano" invece moltissimo gli allenatori di casa nostra. Da Claudio Ranieri, eroe a Leicester, a Carlo Ancelotti, pronto a sedersi sulla panchina del Bayern Monaco, ad Antonio Conte, vicino al Chelsea, per finire a Massimiliano Allegri, in scia Real Madrid. Senza trascurare l'avventura di Francesco Guidolin allo Swansea. Pure nel nostro campionato qualcosa si sta muovendo, come ha raccontato Arrigo Sacchi, il pioniere della modernità pallonara, in un lunga intervista a LaPresse di Vittorio Oreggia.

Sacchi, la scuola degli allenatori italiani sta vivendo un momento di grande popolarità. Si tratta di un ciclo o di una moda? "E' difficile dirlo. Però in Italia vedo una cosa... In una maniera imprevedibile e inconcepibile, stiamo uscendo da una dittatura tattica per cui tutti giocano nello stesso modo, basandosi sulla regola del primo non prenderle, sfruttando solo la fase difensiva e il contropiede, affidandosi alle capacità dei singoli. Oggi c'è un gruppo di tecnici che porta avanti un'idea diversa di calcio". Scusi, inconcepibile perché? "Perché in Italia le società sono indietro. Ci sono presidenti che si avvicinano al calcio per business, oppure senza la minima conoscenza specifica. Invece dipende tutto dalla società, dall'organizzazione, dai dirigenti. Ci sono presidenti che cambiano allenatori cinque o sei volte durante la stagione, basta una sconfitta per innescare il ribaltone... Mancano competenza e programmazione".

Torniamo alla new wave italiana... "Io divido gli allenatori in tre categorie. La prima è quella che comprende un piccolo drappello di geni, di innovatori, di persone che mettono il gioco al centro del loro progetto. La seconda, che rappresenta il gruppo più vasto, è quella degli orecchianti, che seguono la moda senza sapere un granché. La terza annovera tutti quei tecnici che sono orgogliosamente aggrappati al passato, che fanno della tattica esasperata il loro modus operandi, che sono ingessati a un solo sistema di gioco. Ma, ripeto, il raggio di luce è rappresentato dalla caduta di una certa dittatura. In democrazia si cresce".

Lei è stato il precursore della svolta... "Io vado avanti, sa? Questo è il pregio della televisione e della globalizzazione: hanno permesso che avvenissero cose assolutamente incredibili fino a qualche anno fa. Ad esempio: la Roma batte il Bate Borisov e viene fischiata, la stessa Roma perde con il Real Madrid e esce tra gli applausi. A Napoli, in curva, nel settore più passionale, ho letto uno striscione che pressapoco recitava così: ci fate talmente divertire che qualsiasi risultato ci va bene. In fondo, il calcio è lo specchio della vita".

Si spieghi. "La mentalità vincente è il frutto del lavoro, della conoscenza e della capacità lavorativa. Il calcio italiano non sempre ha una sua identità. Mi domando se una persona comune riuscirebbe a capire qual è l'allenatore di una determinata squadra senza saperne nome e cognome. La Honved, il Santos, il grande Real, il Liverpool, l'Ajax, il Milan e l'attuale Barcellona hanno una identità precisa. In Italia si è sempre disconosciuto il merito e la bellezza, ci siamo aggrappati alle scorciatoie, all'uno a zero in contropiede. Per noi il calcio è un'arena romana: vincere o morire, ma una vittoria senza merito non è una vittoria. Bisogna lavorare per essere padroni del campo e del pallone". La Juventus come la colloca? "E' dieci anni avanti a tutte le altre per coesione e competenza. Il suo limite sono i verbi".

I verbi? "Noi al Milan ne coniugavamo tre: vincere, convincere, divertire. La Juventus ne coniuga uno: vincere. E' una debolezza. Si dirà: ma in Italia continua a vincere. E io dirò: anche il Rosenborg vince sempre lo scudetto in Norvegia. Ma cosa conta è la Champions League e in Europa la Juventus fatica". Ahi, ahi, Allegri... "Max è una via di mezzo tra le prime due categorie. E' un grande tattico, sa cambiare in corsa, però non deve accontentarsi solo di vincere".

E chi sono gli eletti? "Di Francesco, Spalletti, Sarri, Paulo Sousa, Giampaolo".

Di Francesco viene accostato al Milan, ma possiede davvero il phisique du role? "Per me è un dettaglio trascurabile. Contano genialità, certezze, capacità di correggersi".

Perdoni, Sacchi, e poi c'è Conte? "E' il primo della lista, un autentico fenomeno. Deve solo spogliarsi di una certa italianità. Che significa essere più coerente. Il calcio totale non ha molto a che vedere con l'italianità. Io Antonio l'ho visto allenare: ha idee chiare, talento, inventiva. E' ora che si tolga di dosso la paura. Basta giocare con la sindrome di Pollicino addosso: palla a noi, non agli altri".

I tecnici italiani, però, stanno invadendo l'Europa: Ancelotti, Ranieri, lo stesso Conte, Guidolin... "Chi ha allenato in Italia può allenare ovunque. Ranieri sta facendo un capolavoro ma con un tipo di calcio non armonioso. E' un grande tattico, sfrutta le sue qualità al meglio. Ancelotti, mi consenta, è diverso e il fatto che abbia sempre avuto a disposizione dei campioni non significa nulla. Guardate come è messo Real... con gli stessi giocatori. L'allenatore è come un direttore d'orchestra. Cito Brecht: senza un copione esistono solo improvvisazione e pressapochismo".