Martedì 23 Aprile 2024

Sacchi: "Così ho cambiato il calcio. Quando Gullit rispose a Berlusconi..."

L'ex ct compie 69 anni e si regala un libro: "Conte e Ancelotti numeri uno, ma c'è una generazione di tecnici ottimisti che imitano il Milan"

Arrigo Sacchi, 69 anni (Ansa)

Arrigo Sacchi, 69 anni (Ansa)

Bologna, 1 aprile 2015 - Sacchi, lei oggi compie 69 anni e ha deciso di regalarsi un libro. «L’ho fatto per spiegare la mia filosofia del calcio e per raccontare come ho trasformato un gioco individuale, specialistico e difensivo (così era precepito in Italia) in un sport collettivo, globale e offensivo».

Il mondo del pallone la considera un rivoluzionario. E lei? «Senza un copione o uno spartito, si può solo improvvisare. Io sono stato autore e direttore d’orchestra, ho sfatato certi luoghi comuni del calcio italiano, ho costretto i giocatori a pensare in grande, senza porsi limiti mentali».

Facile vincere con il Milan dei grandi olandesi Gullit, Rjikaard e Van Basten... «Certo, è più facile imporsi con i campioni ma non dimenticate che prima di me quei grandi giocatori non avevano mai vinto nulla. Poi sono arrivati le Coppa dei campioni, l’Intercontinentale e i Palloni d’oro».

Si dice che il suo fosse anche un calcio molto mentale, cervellotico, ossessivo. «Michelangelo scrisse che non si dipinge con le mani ma con la mente. E io penso che il calcio nasca dal cervello prima che dai piedi. Quando volevo comperare Ancelotti per farne il perno del mio Milan, mi dissero che il potenziale del suo ginocchio era ridotto del venti per cento. Risposi che sarei stato preoccupato se avesse avuto un deficit mentale. Ci vollero mesi per fargli digerire il mio calcio, ma poi diventò una delle colonne rossonere»

Ma chi eleggerebbe a simbolo del suo Milan? «Senz’altro Ruud Gullit. Aveva una potenza fisica straordinaria, un grande carisma e per i compagni era un vero trascinatore. Quando partiva lui, con la criniera al vento, era come se squillasse la tromba dell’assalto».

Però Ruud era pure un dongiovanni e questa passione per le donne a lei non andava giù... «Una volta rispose per le rime a Berlusconi, che chiedeva trenta giorni di astinenza in vista della finale di Coppa dei campioni: ’dottore, io con le palle piene non riesco a correre’. Certo, qualche lavata di capo se l’è presa dal sottoscritto ma ne ha fatto tesoro».

Dopo il Milan la Nazionale: molti scrissero che fu Berlusconi a dirottarla sulla panchina di Ct. «Non è vero. Berlusconi seppe da me che Matarrese mi aveva fatto un’offerta. Anzi, visto che l’accordo con la Nazionale era stato chiuso nel ’91, ma io subentrai a Vicini solo nel ’92, Berlusconi continuò a pagarmi per evitare che mi facessi sedurre dalle offerte della Juve di Montezemolo».

In Nazionale, tanto per cambiare, lei divise i giornalisti in due fazioni: sacchiani e anti-sacchiani... «Lo sport in quel periodo diventò secondario. Quando Berlusconi scese in campo, usando con successo la metafora calcistica, alcuni giornali (l’Unità e il Messaggero in particolare) mi misero nel mirino come amico del premier, quasi fossi un rappresentante della sua parte politica».

Aldilà delle polemiche, per lei il rapporto con il club Italia fu complicato, difficile... «Il ruolo del Ct è come quello di eunuco in un harem. Hai tante belle donne vicino ma non puoi far nulla. Non hai il tempo per preparare a dovere i giocatori. Capisco le difficoltà di Conte, che io considero il più bravo fra i tecnici italiani, insieme con Carlo Ancelotti. Fanno parte entrambi di quel gruppo di allenatori ottimisti che sta cambiando il calcio italiano, privilegiando il gioco offensivo. Nel mazzo metto Sarri e Di Francesco, Mihajlovic, Montella, Benitez, Gasperini, Garcia, Mancini».

Capello come lo considera? «Bravo perché ha vinto tanto, ma con un calcio più tradizionale, difensivo, rivisitato in modo intelligente. E con una grande attenzione alle individualità».

Nel suo libro c’è l’epopea dei trionfi ma anche la battaglia quotidiana contro lo stress. «Ho sempre amato alla follia il calcio e ho lasciato la fabbrica di scarpe di mio padre per affrontare una carriera piena di incognite. A Cesena guadagnavo in un anno quello che a casa intascavo in un mese. Ma il calcio l’ho sempre visssuto in modo ossessivo, rinunciando perfino alla mia vita privata. Niente cinema, nessun divertimento, mai una pizza con la famiglia. Chiedevo ai miei giocatori e a me per primo la massima intensità. In 21 anni non ho mai spinto il freno, sono sempre andato a tutto gas».

Così si spiegano le dimissioni di Parma e quelle di Madrid... «Da quando sono allenatore ho sempre firmato contratti annuali. Ogni volta che cominciava una stagione, percepivo che poteva essere l’ultima. Ho pensato mille volte di ritirarmi, finché lo stress non mi ha consumato del tutto. Notti insonni, gastrite, mille dubbi dentro da sciogliere prima della partita. Alla fine non avevo più energie e quando uno è svuotato dentro, non può riempire gli altri».

Eppure il Milan l’ha richiamata di nuovo anche pochi mesi, dicono per per sostenere Inzaghi... «A questa domanda preferisco non rispondere».

Dovesse incorniciare un momento della sua carriera? «La prima Coppa dei campioni vinta a Barcellona contro la Steaua Bucarest. L’Equipe scrisse: dopo aver visto questo Milan, il calcio non potrà essere più lo stesso».

Il più amaro è la sconfitta ai rigori con il Brasile? «Non ne feci una tragedia. La mia Italia ottenne il massimo, arrivando a quella finale in condizioni ambientali terribili. E il Brasile meritava più di noi quella Coppa. Ai miei giocatori ho sempre insegnato che anche la sconfitta ha un’anima».