Sabato 20 Aprile 2024

Moratti: Zhang non è Thohir, Suning riporterà l’Inter al vertice

Le grandi interviste di Italo Cucci. "Il ct Fabbri era stato scartato per Herrera e non convocava interisti"

Massimo Moratti (Ansa)

Massimo Moratti (Ansa)

Bologna, 4 dicembre 2016 - Sto parlando con Massimo Moratti, nel suo studio milanese, ma fatico a concentrarmi sull’Inter: dalla parete alle sue spalle mi osserva una donna di De Chirico, ignuda, sensuale, rubensiana, naturalmente bella; e rischio sgraditi effetti da sindrome di Stendhal.

Tuttavia resisto: conosco Moratti da mezzo secolo ma è la prima volta di un’intervista, a parte le tante telefonate... telegrafiche con una sua classica espressione - «cosa ne pensa di...?» - riferita abitualmente a tecnici, ché di questi ho sempre parlato con MM.

Come quella sera di maggio del 2013, quando ci scambiammo alcuni punti di vista su Walter Mazzarri, distraendoci per qualche tempo dalla magica visione della Valle dei Templi splendente nella notte di Agrigento. Il precedente mi impone di trascurare le opere e le idee di Frank de Boer e di Stefano Pioli, appena avvicendatisi sulla panca dell’Inter mentre è inevitabile che prima o poi si parli di Helenio Herrera, il Mago per antonomasia, e di Josè Mourinho, il suo erede, che personalmente ritengo gli unici condottieri degni di una Grande Inter, anche se Massimo - lo anticipo - mi dirà «però anche Mancini...», sicché si capisce cosa possa pensare del Thohir che l’ha cacciato.

La Grande Inter: non tutti l’hanno vissuta, io sí, vantaggio dell’età. Era l’Inter di Angelo Moratti, la squadra di una famiglia globalmente nerazzurra, con mamma Erminia che Nicolò Carosio chiamava Lady nelle telecronache, i due ragazzi - Gianmarco e Massimo, eleganti e educati - e la bella Bedy che tifava più dei fratelli, senza preoccuparsi di pensieri e parole trasgressivi, ignorando la disciplinata comunicazione introdotta da Italo Allodi.

Ricordo che una sera, a Milano, verso la metà dei Sessanta, mentre con altri colleghi cenavo al “Riccione” ospite di Gianni Brera, arrivò Moratti che fu subito intercettato dal Giuàn: l’appena ventenne Massimo seppe resistere alle domande e dopo poco s’accomiatò educatamente, non senza lasciarmi un segno della sua signorile disistima: quando gli strinsi la mano, presentandomi, non poté fare a meno di dirmi «ah sì, l’amico del Bologna...». Lo Spareggio dell’Olimpico non era finito al Novantesimo.

«È vero - dice Moratti - l’Inter era la nostra squadra amatissima che viveva anche nell’ambito famigliare. Papà, pur preso da mille impegni, voleva che restassimo insieme il più possibile, mentre eravamo in casa: facevamo colazione prestissimo, prima di andare a scuola, e ci incantava con racconti spesso interpretati come se fosse un attore; erano naturalmente storie di vita, il suo vagare nel mondo, le sue avventure meno note, come quella della Somintra, la società mineraria che nei Trenta aveva creato sul lago Trasimeno... Un’azienda, una squadra, poi la guerra, la miniera usata per nascondere ebrei e italiani dai tedeschi ormai sconfitti, la pace difficile, la ripresa lavorativa, finalmente il benessere. Questo era nostro padre...».

La Grande Inter, la Famiglia Moratti che continua ad essere evocata - spesso invocata - anche nelle stagioni di Fraizzoli e Pellegrini che pure hanno fatto onorevolmente la loro parte; il poco glorioso regime indonesiano di Erick Thohir e adesso i cinesi, fine di un epoca, inizio di un’altra storia.

«Mi faccia dire subito una cosa: in questo passaggio epocale mi ha colpito un dettaglio che è diventato fondamentale proprio per quella storia famigliare dell’Inter che le dicevo, perché all’uscita dei Moratti non ha fatto riscontro l’ingresso di una multinazionale, di una anonima società della Cina ma quello di una famiglia che mi si è presentata con l’intenzione di stabilire una continuità, come dire?, anche umana. Si parla della grande e ricca società Suning ma io ho conosciuto il signor Zhang Jindong che mi ha parlato dei suoi programmi sul futuro dell’Inter con la stessa passione che ci ho messo io, non interessato a una speculazione finanziaria ma a far diventare ancora più grande, nel suo grandissimo Paese, il mito nerazzurro; al primo approccio con la squadra ha voluto che ci fossi anch’io, proprio a sottolineare una continuità famigliare; eppoi, andandosene, mi ha lasciato il figlio Steven, un gran bravo ragazzo che ho ospitato, col quale si parla della “nostra” Inter; vuol sapere tutto, e di storia ce n’è, e ha in mente di stare a Milano, di seguire il club giorno dopo giorno, non di viverne l’avventura da lontano, come purtroppo è successo con Thohir». Non indago oltre, sul passaggio infelice di Thohir, parliamo con il patto di non sollevare polemiche; e sfioriamo appena il caso opposto del Milan, ancora in preda a dubbi cinesi di ben altra natura, anche se Moratti esprime sempre fiducia e simpatia per Silvio Berlusconi «che saprà lui cosa fare, io ho i miei problemi, non mi metto certo nei suoi...».

Problemi di passione, ormai... È dura venirne fuori. Per uno che ha vissuto le imprese dell’Inter di be il magnifico Triplete di Mourinho... «Beh, anche Mancini ha fatto la sua parte... Ma come si fa a guardare al passato? Io ho vissuto una vicenda leggendaria...Vuol sapere il mio primo derby? Avevo quattro anni, il 6 novembre del ‘49, papà e mamma mi portarono a San Siro, dopo un po’ eravamo sotto di quattro gol, poi una straordinaria rimonta e vittoria per 6 a 5... come dimenticare? M’è rimasto impresso un grande protagonista, Nyers...Papà voleva un’Inter di grandi. Solo per ragioni politiche non potemmo ingaggiare Puskas e Kocsis, gli ungheresi fuggiaschi. Naturalmente ci riuscì il Real di Francisco Franco. Quel derby vissuto da bambino mi tornò in mente al primo derby da presidente, nel ‘95, quando dissi all’amico Berlusconi e a Galliani di non infierire con il loro spettacoloso Milan e invece vincemmo noi dopo che Weah aveva sbagliato tanti gol. L’allenatore era Ottavio Bianchi che caricò la squadra alla grande insieme a Berti e Seno che segnò anche un gol... C’era anche Zanetti, a quei tempi...”.

Poi Bianchi se ne andò, e arrivò Suarez... L’Inter non ha avuto sempre grande fortuna con gli allenatori. Ne ebbe suo padre che aveva appena ingaggiato Edmondo Fabbri e all’ultimo minuto lo sostituì con Helenio Herrera che vinse tutto in Italia, in Europa e nel mondo. Cosa successe? «Fabbri l’aveva portato Allodi dopo che insieme avevano realizzato il miracolo di Mantova, dalla D alla A ... Ma in quei giorni mio padre parlò con un giornalista della Gazzetta, se ben ricordo Giorgio Mottana, che gli raccontò le imprese dell’allenatore del Barcellona, Herrera, accendendogli una luce: papà anche come imprenditore aveva grandi intuizioni e coraggio e da un giorno all’altro portò a Milano il Mago. Fabbri la prese malissimo e come ricorderà, diventato tecnico della Nazionale, tenne i nerazzurri più lontano possibile, a parte Facchetti che era insostituibile. Se a Middlesbrough avesse avuto Picchi non avremmo perso con la Corea...». Anche lei ha buona memoria... «Della Nazionale? Sempre! Deve sapere che quando avevo nove anni mi avevano mandato a studiare in Svizzera dove nel ‘54 si giocarono i Mondiali e Foni, nella commissione tecnica dell’Italia, era anche allenatore dell’Inter con la quale aveva vinto due scudetti. Ero in casa anche con gli azzurri... ». (Foni, purtroppo, fu ct azzurro anche quando l’Italia patí la sua unica esclusione dai Mondiali, nel ‘58, quando a Belfast, piena di oriundi, fu sconfitta dall’Irlanda del Nord e il presidente del Coni, Giulio Onesti, inveí contro i presidenti di un calcio in crisi proprio come oggi definendoli “ricchi scemi”).

A proposito di allenatori, l’Inter ne ha avuti di grandi che tuttavia spesso non amavano i campioni che gli affidavate. Ricordo Herrera che fece vendere il bomber Angelillo alla Roma e chiedeva puntualmente a Allodi di cedere Corso. Suo fratello Gianmarco, che s’interessava poco della squadra, mi ha raccontato che toccava a lui dire al Mago che aveva offerto Corso a destra e a manca ma nessuno lo voleva... E Hodgson con Roberto Carlos, Picchi con Baggio... «Corso? Era titolare fisso, non ha saltato una partita. Baggio? Un grande, il più bravo di tutti... Lucescu mi diceva: non c’è bisogno di spiegargli niente, va in campo e sa lui cosa fare... Fece due gol a Verona che ci portarono in Coppa, ma con Lippi non legò mai e se ne andò... ». E invece Mourinho... «Davvero condottiero seppe costruire una squadra straordinaria che pendeva dalle sue labbra e accettava ogni sacrificio. Così poté vincere tutto». Ricorda quando le parlai di Mazzarri? «Mi piaceva come lavorava, non ha avuto fortuna... Milano non è facile... Anche De Boer: era un’idea nuova, forse troppo nuova...». Ha avuto buone parole per Pioli. «Mi è sembrato la persona giusta per portare ordine e carica nella squadra... È un interista appassionato».

Ma non basta. Troppi giocatori da inquadrare... «Ce ne sono di bravi ma devono diventare determinanti come Icardi, l’unico che fa bene la sua parte... Un conto è avere giocatori importanti, un conto è fare una squadra... Vedo sempre tanto calcio, di questi tempi a proposito di squadra mi ha impressionato la Spal... Il rimedio? Non sempre dipende dall’allenatore... Ricorda Italo Allodi? Non si lasciava sfuggire un dettaglio, era il tutore della squadra, dell’allenatore. Competenza e passione».

Già, Allodi, bravura assoluta oltre le chiacchiere dei rivali. Non è solo nostalgia di un Moratti che ha vissuto con lui stagioni leggendarie. È come presentare alla nuova Famiglia Nerazzurra l’identikit del vero salvatore. Steven Zhang, buona fortuna.