Giovedì 18 Aprile 2024

Aru nel 2016 attacco al Tour nel mito di Pantani

A caccia non solo dell’eredità del Pirata e di Nibali ma anche la memoria di Gimondi e Nencini, di Coppi e di Bartali, giù giù fino a Bottecchia

La grinta di Aru alla Vuelta, vinta del 2015 (Ansa)

La grinta di Aru alla Vuelta, vinta del 2015 (Ansa)

Forse non è verom che il ciclismo eroico è morto con Marco Pantani. Forse sbaglia chi pretenda di liquidare il mondo delle pedalate alla stregua di una nefasta congrega di imbroglioni omertosi. Del resto la bicicletta appartiene al Dna dell’essere umano, sfiora ognuno di noi sin dalla più tenera età ed è un veicolo unico, capace di trasmettere storie leggendarie, dai giorni remoti di Fausto Coppi e Gino Bartali.

E insomma, il prossimo luglio sarà difficile rimanere indifferenti dinanzi alla avventura di Fabio Aru sulle strade del Tour. Aru, il ragazzo che viene dalla Sardegna assolata. Aru, il Cavaliere dei Quattro Mori che offre sempre di sé una immagine da guerriero indomito, pronto al sacrificio, disposto a soffrire oltre il limite della tolleranza pur di acchiappare il risultato.

E' stato così nel 2015, quando il figlio dell’Isola ha sfiorato il trionfo al Giro d’Italia e poi si è impadronito in extremis della Vuelta. La sua tenacia ha incantato chi si fermava lungo la strada o davanti al televisore, perché pareva di cogliere, tra le pieghe dei suoi scatti, un moto dell’anima. Va da sé che nemmeno Fabio ce la fa a reincarnare la mistica del Pirata di Cesenatico, lì stavamo a livelli di compassione (nel senso autentico del patire insieme a Marco che si dimenava in salita) nazionalpopolare mai più replicati e non replicabili. Ma la qualità del soggetto Aru si sta conquistando un rispetto collettivo. Al Tour del 2016, obiettivo disegnato e designato per un campione alla ricerca della piena consacrazione, la sfida sarà tremenda. E’ inutile fare finta di niente: il Giro e la Vuelta hanno il loro fascino, ma la corsa a tappe francese è unica.

Sulle Alpi e sui Pirenei Fabio il Sardo dovrà giocarsela con il chiacchierato Froome, con gli spagnoli, con il colombiano Quintana. Forse pagherà un prezzo alla limitata esperienza, eppure non si presenterà per accettare un ruolo da comparsa. Magari potrà chiedere consiglio allo scomodo compagno di squadra, quel Vincenzo Nibali che la Grande Boucle l’ha già conquistata. Un altro isolano, Nibali: viene dalla Sicilia, ha una grande personalità, l’ha dimostrato reagendo alle disavventure del 2015.

La coabitazione sotto i tetti della Astana (e ci sarebbe da riflettere, avendo tempo e voglia, sugli esoterici sentieri che hanno portato il ciclismo a trovare nel Kazakistan una sorta di Eldorado: ma non è questo il luogo) spingerà i due italiani a restare separati sulle strade del ciclismo, il siculo punterà alla maglia rosa, il sardo alla maglia gialla: va bene così, l’importante è che l’intelligenza li aiuti a non essere uno intralcio dell’altro. Alla fine della fiera, Aru al Tour è una promessa che si rinnova. E’ una certa idea dell’Italia innamorata della bicicletta a riaffiorare, mettendo in conto non solo l’eredità di Pantani e di Nibali ma anche la memoria di Gimondi e Nencini, di Coppi e di Bartali, giù giù fino a Bottecchia. Bisogna avere una cultura dello sport per capire il senso della sfida di Fabio il Sardo: magari, il prossimo luglio, state meno in spiaggia e accendete la tv. Forse, ne varrà la pena.