Prince, resta solo la musica. "Si drogava per paura del palco"

Spunta il pusher: "Era dipendente dalla morfina dall’84 al 2008"

Prince sul palco durante un concerto

Prince sul palco durante un concerto

OGGI a New Orleans si celebreranno i funerali di Prince con tanto di marchin’ band e volo di colombe bianche. Ma sarà solo una parata jazz popolata da eccentrici fan in abiti porpora, perché il Kid è già stato cremato a Minneapolis e le ceneri affidate alla famiglia. Come David Bowie, come George Harrison, come Kurt Cobain, come Freddie Mercury, come Janis Joplin l’autore di “Purple rain” ora è solo polvere e ricordo. Per il rock, infatti, non sembra essere più tempo di sepolcri, di Forest Lawn, di Père-Lachaise, di Graceland; le superstar preferiscono dissolversi nel vuoto lasciando al culto dei fan solo la loro musica. Mentre l’America si tingeva di viola, la sorella del cantante Tyka Nelson si ritrovava in gran segreto con parenti e amici alla First Memorial Waterston Chapel per la cerimonia d’addio. Privato pure il luogo di sepoltura delle ceneri, sempre che il “Purple One” non avesse espresso il desiderio, in qualche conversazione preveggente, di farle spargerle come altri celebrati colleghi di palcoscenico in luoghi topici del pianeta tipo l’isola di Bali (Bowie), il Gange (Harrison), il Wishkah River (Cobain), il Lago di Ginevra (Mercury) o l’Oceano Pacifico (Joplin).   INTANTO i fan continuano ad assieparsi davanti agli studi-bunker Paisley Park in Audubon Road, ricevendo dalla famiglia Nelson una scatola viola con foto e maglietta del congiunto. L’ultimo omaggio in attesa di sapere cosa vorranno fare gli eredi delle centinaia di registrazioni, provini, idee musicali ancora nell’archivio di una tra le più prolifiche menti musicali della storia. C’è da giurare che alla fine quei files troveranno un utilizzo commerciale, anche se le modeste prove date alle stampe dal Kid nell’ultimo ventennio (salvo qualche notevole eccezione come “3121” o “Planet heart”) consiglierebbero prudenza. Già si parla di una mega celebrazione «in memoriam», forse proprio a Minneapolis, intanto la catena di cinema Amc Theatres ha già riportato “Purple rain”, il film che trentadue anni fa consacrò la figura di Prince nel Walhalla della musica, sugli schermi di 87 sale americane.  Per il coroner la priorità è ora quella di ricostruire la storia medica di Prince, a cominciare dal malore in volo che una settimana fa costrinse il suo Falcon ad un atterraggio di emergenza al Quad City International Airport di Moline, Illinois, e ad un ricovero di poche ore in ospedale. Influenza, disse l’entourage, overdose di Percocet, un potente antidolorifico, s’è saputo poi. Per gli esiti dell’autopsia e degli esami tossicologici, compiuti venerdì al Midwest Medical Examiners Office di Ramsey, ci vorranno settimane. Intanto però, il “Daily Mail” ha pubblicato un’interessante intervista con il pusher del cantante, che fa alcune sue congetture sull’accaduto e sembra rafforzare l’ipotesi dell’overdose di oppiacei già rimbalzata nelle ore immediatamente successive al decesso. Il non meglio identificato «Doctor D» rivela infatti che Prince usava potenti oppiacei dal 1984 e che per le sue scorte di pillole Dilaudid (idromofone, pare molto amato anche da Elvis Presley) e di cerotti di Fentanyl arrivava a spendere anche 40 mila dollari ogni sei mesi. Insomma, qualcosa come 200-300 dollari al giorno. Secondo «D», il cantante aveva un sacro terrore del palcoscenico che lo rendeva farmaco-dipendente. E si rivolgeva agli spacciatori per la fobia dei dottori. Il massimo degli «ordinativi» li avrebbe fatti prima dell’esibizione al Superbowl di Miami del 2007 e dello show a Coachella l’anno successivo.    DI STANZA in California, «Doctor D» racconta nei particolari le abitudini e i tormenti di Prince: avrebbe iniziato a servisi del Dilaudid sul set di “Purple rain” e avrebbe continuato farne uso sistematicamente per la timidezza, perché paralizzato dalla paura del palcoscenico, poi per il troppo successo oppure anche per il poco successo. «Era un uomo-pillola», racconta «D», non fumava crack, non sniffava cocaina, mangiava in maniera sanissima (perlopiù insalate), non parlava mai, con «D», di amori o cose intime, ma gli parlava molto di Dio, cercando di convertirlo alla fede in Geova, «forse perché si sentiva in colpa per la droga», dice «D». Secondo il pusher, che da otto anni non forniva più i suoi servigi al cantante, i medici potrebbero aver contribuito inconsapevolmente a far precipitare la situazione prescrivendo al cantante forti antidolorifici (per sopportare i postumi dell’operazione all’anca subita nel 2008) senza conoscere la reale entità della sua dipendenza da oppiacei. E la recente “pulizia” dell’overdose a base di Narcan effettuata in ospedale, non avrebbe fatto altro che peggiorare il già compromesso quadro generale.