Venerdì 19 Aprile 2024

Quelle isole di plastica che invadono i nostri mari, una minaccia globale

ANCHE PER IL MARE è iniziata ufficialmente, e la ricerca scientifica applicata lo dimostra, l’era dell’antropocene: e non solo per gli effetti dei cambiamenti climatici, ma per la distruzione degli ecosistemi vitali di cui siamo responsabili. Secondo un dossier presentato dal World Economic Forum, ogni anno 8 milioni di tonnellate di materie plastiche finiscono in acqua e il Mar Mediterraneo è una delle zone più colpite. Siamo passati dalle isole di plastica oceaniche (almeno cinque quelle conosciute) alla plastic soup del Mediterraneo, una zuppa di rifiuti che secondo l’Istituto di scienze marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Lerici avrebbe tra Toscana e Corsica la maggiore concentrazione: fino a 10 chili per chilometro quadrato, quattro volte quella oceanica. Nelle acque del Santuario Pelagos da anni si studiano gli impatti di questa minaccia sui cetacei perché quei frammenti entrano nella catena alimentare di balene, delfini e tartarughe, uccelli marini e grandi pelagici e, forse, in quella umana. Si tratta di polimeri di polietilene e dell’indistruttibile polipropilene, quello usato per fabbricare miliardi di tappi di plastica, ma anche vernici e poliammidi. A terra, il primo studio sulla Marine Litter realizzato da nove enti di ricerca di sette stati del bacino adriatico e ionico dipinge un quadro inquietante: ogni due passi fatti sulla sabbia si trova un rifiuto e nel 91% dei casi troviamo residui di plastica. Un dato ottenuto analizzando oltre 170 mila campioni raccolti in 18 chilometri di litorale. È il regno del fratino, il Charadrius alexandrinus, minuscolo limicolo nidificante sulle nostre spiagge, particolarmente protetto dalla Direttiva Uccelli. Scava piccole buche sulla sabbia, per costruire il suo nido e deporre le uniche tre uova che coverà per circa un mese, difendendole da possibili intrusi. Proprio come fa la tartaruga comune, la caretta caretta, regina delle spiagge mediterranee. Depongono le loro uova tra mozziconi di sigarette, bottiglie di vetro e resti di pakaging ma soprattutto circondati da tanta plastica, troppa. Una minaccia per le tartarughe, al limite dell’estinzione, anche in mare, poiché ghiotte di cefalopodi sono incapaci di distinguere un frammento di plastica da un calamaro. L’Italia negli ultimi anni sembra essersi resa conto della gravità di una situazione che fa della spazzatura marina «una delle principali minacce all’ecosistema». Se ne parlerà nel prossimo G7 Ambiente di Bologna, grazie ad un panel dedicato esclusivamente alla Marine Litter dal quale è emersa la necessità di coordinare e allineare gli obiettivi e i piani d’azione. Ma da dove arriva questo mare di rifiuti? Per la gran parte da terra, dalle buste di plastica, se ne fabbricano almeno 500 miliardi l’anno, ma anche da reti da pesca, ormai tutte in materiali resistenti e indistruttibili, boe, lenze, cassette e contenitori ed è paradossale ma vero, gli stessi pescatori che con la rete pescano rifiuti oltre ai pesci hanno difficoltà a smaltirli una volta a terra. Forse dovremo cominciare proprio da qui, dal ruolo che i portatori di interessi potrebbero svolgere, se incentivati e aiutati a farlo, e se è vero, come dicono alcune stime, che nel 2050 negli oceani ci saranno più rifiuti che pesci, forse non abbiamo alternative.